Capitolo 1. Lo schifo.





 

Cos’è a cosa serve come funziona?                                            

Credenza piena di non essere                                                    

Che è per non essere

Essere                                                          


Quel che
è                                                                         

Addormentato tra le braccia del vampiro.

 

 

 

             
              Lo schifo

                                    1

 

Seduto su una pila di libri barcollante ad un tavolo sarcofago chiuso ermeticamente sopra il quale c’è una forma di fuoco plastico da modellare. Pacioccare col fuoco è un piacere per pochi, le mani si scottano, gli occhi si arrossano, le narici si affumicano per non parlare dei crepitii che in certi momenti sono veramente assordanti e rintronano nelle orecchie scendendo giù per le budella per sfiatare dal culo in lunghe scoregge sospirate…e che dire della lingua? La lingua nutre una passione sfegatata per il fuoco, una passione vietata e per questo incontenibile, la voglia di leccarlo, desiderio struggente, certe volte si fa così intensa che la punta del naso diventa tutta rossa ed il fuoco pare capirlo e si scatena in una danza frenetica avvampando dal sarcofago ai capelli che si incendiano  fino al soffitto con una lingua fiammeggiante che vorrebbe fondersi con quella dell’autore in un bacio di puro amore e  l’impotenza, il non potere,  si trasforma in un volere represso che cala come una cortina di ghiaccio che certe volte è un vero e proprio muro impenetrabile.

Qual è il problema? Il problema sono io! Chi sono io? Bella domanda, chi sa dare una risposta? Io di certo no altrimenti per quale ragione farei tante storie?

Dall’inizio: sono nato oggi, per la prima volta ho aperto gli occhi al mondo e che cosa ho trovato? Ancora domande, ebbene sì, è proprio così, una domanda.

Nulla tutto intorno, zero, soffio sul fuoco e la creazione si srotola parola dopo parola in un filo logico che è presente solo nel momento che è in atto e viene fuori da un sarcofago chiuso ermeticamente dentro al quale ci può essere solo ed esclusivamente un morto, una mummia che si sfascia lentamente, il filo appunto e brucia, e come brucia. Io sono la mummia? Allora chi è che scrive? Io scrivo? Allora chi è la mummia?

Con ordine: uno non è l’altro e l’altro non è uno, poniamo per ipotesi il non essere uno e l’altro e vediamo la questione dal punto di vista di un perfetto sconosciuto.

Senza pietà: chi è questo sconosciuto? Il non essere uno e l’altro identifica una cosa del tutto nuova, una forma assolutamente priva di qualsiasi contenuto che sia compreso nell’ essere uno e l’altro quindi se penso la cosa non pensa, se credo la cosa non crede,  se ho un passato la cosa non ce l’ha e via di seguito,  qualsiasi cosa mi venga in mente non è.                                                                       

Se “io” vivo la cosa non vive. Non vivere non significa essere morto, morto è   l’altro, quello nel sarcofago che come me non è,  la vita e la morte, come il bene ed il male, sono i limiti dell’esistente e lo comprendono come fa il tempo con lo spazio o l’hardware con il software, non è una trascendenza perché a trascendere è l’altro da me oppure “io” dall’altro.

Il campo d’azione è importante, non so ancora, e come potrei? quanto.

Qualsiasi posto non è quello dove sono o dove credo di essere, il problema sembra irrisolvibile perché QUALSIASI COSA POSSA IMMAGINARE NON È, idee, creatività, talento, via tutto,

                                                             TABULA RASA.

A questo punto la pila di libri dove sono seduto inizia  ad agitarsi ed a premere come un grosso palo che cerca di infilarsi su per il culo, sposto il punto d’appoggio cercando il più comodo possibile ed appare una stanza con una finestra dentro al quale sta la cosa e dato che se  scrivo la cosa non scrive lo vedo andare su e giù per la stanza come uno che non sa cosa fare.

La stanza per il momento in atto è avvolta da una penombra soffusa dove non si capisce nulla, fuori dalla finestra si vede il deserto infiammato dal sole a perdita d’occhio e l’orizzonte sullo sfondo un immenso bagliore accecante.

Sui lati le pendici di due piramidi e di fronte una lunga striscia d’ombra che si perde inghiottita dall’orizzonte causata probabilmente da qualcosa di molto grande che sta dietro e non riesco a vedere, forse un’altra piramide.

Il tempo, anche lui, non è e così si vede la striscia muoversi da sinistra a destra seguendo il percorso che dal mattino porta alla sera e le dune del deserto scivolare silenziose come onde marine che si frangono sotto la finestra sollevando spruzzi di sabbia e polvere che il sole ed il vento vorticano in una gioiosa festa  di luccichii iridati…il tutto in pochi secondi che significano quel che avverrebbe in centinaia, miliaia di anni.

Nel mezzo tra il punto di vista e l‘orizzonte, oscillante sull‘oceano di sabbia, miraggio nel miraggio,  la cupola trasparente di un tendone da circo all’interno del quale c’è uno schifo  con una vela triangolare alzata e sul ponte la forma indistinta di una mandria di bestie dai più svariati contorni confusi in un brulichio indescrivibile.                

Alla finestra è apparso l’uccellino, da quando gli ho messo il sale sulla coda non mi ha più abbandonato, la pratica della parola lo ha reso un filosofo.

Dice: “ il non essere della cosa pone in essere il non essere della mummia ed automaticamente il tuo essere è diventato non essere.”        Cinguetta, apre le ali e vola via.     
 
                                                            

                                                                                       

                               La dea.


 

“Ehi tu! Chi ti credere di essere?”

Sul ciglio della strada, all’imbocco di un sentiero che porta al fiume, c’è una puttana negra seduta su una seggiola. Minigonna all’inguine, lunghe gambe tornite fasciate da calze a rete bianche strappate in più punti, body trasparente rosso teso dai seni grandi coi capezzoli larghi e gonfi di cui uno scoperto, testa ricciuta coi capelli corti tinti di biondo, occhi grandi illanguiditi dalla cocaina, naso normale con la punta leggermente storta sopra una bocca dalle labbra carnose e rosse, viso ovale, incipriato, lungo collo da giraffa. In mezzo alle gambe, sporgenti dalla minigonna, uno spruzzo di peli biondi vibra al vento. Dimostra una ventina d’anni ed odora d’Africa, di muschio e di cazzo.

Sulla strada macchine vanno e vengono rombando, il cielo è grigio con squarci di azzurro tra le nubi, sopra gli alberi uno stormo di cornacchie strilla gazzarrando intorno ad un falco.

“Ehi! Chi ti credere di essere? Mi volere imbrogliare? L’altra volta avere detto cinquanta ed era quarantotto ed uno era marcio e essere rotto, preso tutto in bocca! Io non volere pagare!”

Si alza, è alta e robusta con il corpo modellato sexy all’inverosimile ed ha tutta l’aria di volermele dare. Ci conosciamo da un paio d’anni ed abbiamo avviato un’attività: in poche parole lei raccoglie i preservativi usati dai clienti e me li passa insieme alle buste strappate ed “io” li lavo e rimetto a nuovo risigillandoli nelle buste e glieli rivendo ad un quarto del valore. L’affare rende e mi dà da mangiare.                                                                            

Il suo nome non lo so, la chiamo “LA  DEA”, causa il lavoro la vedo quasi tutti i giorni, è tirchia ed avara e c’è da discutere sempre sui soldi.

Lascio che sbolla e rispondo: “Sei tu che imbrogli, cerchi sempre scuse per non pagare, questa è la verità!”

“Tu volere sganassone e ti spaccare tutti i denti, guarda che dare se dire così, io non imbrogliare, io onesta, essere tu pelandrone avere sempre testa chissà dove e lavorare male, tu cambiare o cercare altri!”

“Cerchi grane, cosa credi? Di zoccole come te ce n’è in ogni angolo e sarebbero tutte disposte, se vuoi cambiare fallo!”

“Cosa dire? Chi trovare tu? Nessuna come me essere tanto scema dare tu retta, andare a chiedere, dire tutte no. Tu matto, io perdonare questa volta però pagare solo quarantasette e se succedere ancora mandare al diavolo!”

“Ok, dammi quello che vuoi e facciamola finita. Qui ci sono quelli nuovi, tieni e tira fuori i soldi.”

Prende il sacchetto , conta il contenuto ed annota il numero in un libriccino poi mi paga: “Ecco, qui essere soldi e qui tuo lavoro.” dice porgendomi una scatola colma di preservativi sborrati di fresco insieme al denaro.

“Essere sessantacinque, controlla.”

“Mi fido, so quanto sei precisa, fossi solo un po’ meno tirchia saresti anche simpatica, tu sei la mia dea, per te farei…”

“Quale dea parlare, chi volere infinocchiare?” m’interrompe addolcendo la voce, “Tu sapere io non essere tirchia, essere che soldi non bastare mai, dovere comprare tomba per me, per fratelli e per genitori, essere tanti e solo io lavorare, da paese arrivare sempre lettere, anche prete e padrone di cimitero scrivere, chiedere sempre, non finire mai.”

“Che te ne fai della tomba, quando morirai farai solo concime per terra.”

“Tu dire così perché essere ignorante, tu non sapere cosa succedere a morti senza tomba, diventare zombie e fare schiavi per stregoni, io paura, volere tomba, solo quello pensare.”

In quel momento sulla strada si ferma una macchina, la dea si avvicina e contratta con l’autista, quello mette la testa fuori dal finestrino per guardarla meglio, poi guarda me, rientra e se ne va facendo rombare il motore.                                  

La dea torna con l’aria delusa, dondolandosi sulle gambe.

Dice: “Colpa tua, lui veder te e andare, fatto perdere lavoro.” Sospira guardando le macchine scorrere avanti ed indietro per la strada e continua: “Oggi essere pochi, battere fiacca…tu avere soldi, perché non fare, io brava, tu sai, andiamo?”

“Non posso, non ho voglia ed ho fretta.”

“Dove fretta? Tu dire me ma essere tu tirchio! Dare solo dieci euro, ti succhiare anche midollo.” Si avvicina facendomi dondolare il capezzolo scoperto davanti alla  bocca e ripete con voce languida: “Ti succhiare anche midollo.”

Il rombo di un tuono esplode con fragore sulla scena rimbombando a lungo, improvvisamente tutto piomba nel silenzio, sulla strada non passano più macchine, anche il vento smette di fischiare e le cornacchie si dileguano allontanandosi verso l’orizzonte con lunghe e lente bracciate d’ala.

La dea s’acciglia e dice: “Anche oggi passare funerale, tutti i giorni passare, essere tutti matti.”

Dal silenzio esce fuori il suono di una marcetta, al limite della strada appare un povero cristo con una croce sulle spalle e dietro segue la processione, due ali di persone vestite a lutto avanzano con incedere lento e solenne e nel mezzo una lunga fila di pezzenti si trascina sorreggendo sulle spalle dei cadaveri semi putrefatti vestiti da cerimonia.

I portatori di cadavere stentano i passi e sbuffano e gemono per la fatica ma hanno tutti l’aria spavalda. Gli scalpiccii delle file laterali battono l’asfalto schioccando come fruste. Tutti indistintamente passando vicini ci guardano con odio.

La scena continua inesorabile, nel frattempo ho aperto la porta che divide i due mondi del non essere e sono rientrato nella stanza. Fuori dalla finestra le onde del deserto scrosciano con fragore, l’orizzonte è buio ed un vento lugubre ulula rabbioso sollevando cavalloni di sabbia oltre ogni dire, fulmini tuoni boati squarciano il cielo plumbeo, sta arrivando una tempesta. Chiudo le ante e riprendo a scherzare col fuoco.

 

                   Contra punctum.


 

Forma non è, nome nemmeno, città corpo parola pensiero sinonimi di niente, logica o illogica sostanza di ieri, luce e buio palline da ping pong, tutto nulla il vuoto ed anche il vuoto non è, memoria esperienza volontà condizionata abitudine una credenza convinta vissuta sullo schermo di un cinema chiuso.

L’uccellino dice: “Qualsiasi punto è oggi, la forma un adattamento sistematico al punto, probabilità da combinare e solo una è la possibilità. La ragione del più forte è legge determinante, il peso inchioda il punto nella storia e lo svolgimento si inverte in data, la data prende corpo e vita apparente e si sovrappone alla realtà, il fermo si muove ed il movimento immobile.”

L’uccellino cinguetta, lo manteniamo per non uscire di strada: “Il mappamondo ruota ed ogni rivoluzione un giro oppure un passo sulla strada dell’eterno, il pendolo del moto perpetuo torna indietro ma indietro è la forma di avanti ed il progresso è oggi, un risultato.”

Morte non è, vita neppure, essere a priori vivo o morto quel che credono i più, più e meno non è, la pila di libri sembra un enorme cazzo che mi vuole inculare ma quel che sembra non è, acqua passata nella fontana della creatività, in cima al getto sborra il punto ed il cazzo è pozzo nel fondo del quale stagna il mistero.

Alla finestra la storia ha preso il posto del deserto.

 

“1 gennaio 1801, data memorabile! Oggi, cercando la morte, abbiamo scoperto l’entrata della Sfinge.”

Ieri mattina all’alba ci svegliammo di soprassalto da un incubo dove il rabbino ci aveva intrappolati in un discorso ragnatela zeppo di parole chiave che aprivano porte all’interno di significati che dal nulla prendevano forma e vivevano nella materia inanimata, lo vedevamo avvicinarsi  zoppicando sui sette bracci della menorah col naso allungato in un orrendo pungiglione per succhiarci l’anima quando aprimmo gli occhi e sentimmo  Ixo nello stanzino di Alì ridere e gemere come una cagna. Ci alzammo infuriati, sul tavolo vedemmo una scure, l’avevamo impugnata e l’agitavamo all’aria ma fortunatamente riprendemmo il controllo e la visione del rabbino che ancora ci accecava svanì.

La maledizione di Ixo si ripeteva, l’indovino era tornato a chiedere il rinnovo del contratto? La ragione in noi lottava con l’irragionevolezza del fato, il libro ci stava condizionando ma non avevamo alcuna intenzione di diventarne strumento.

Ci vestimmo ed uscimmo dalla nostra casa come ladri, vagammo per un giorno ed una notte persi e senza meta tra le dune del deserto ragionando sulla crudeltà dei giovani, sulla bellezza di Ixo, sulla vecchiaia colpa e castigo, sui soldi che erano finiti, sul libro che iniziavamo ad odiare ed  infine decidemmo di farla finita,  di morire ed annegare nel sonno innominato tutti i nostri guai.

Il cammello che montavamo sembrava partecipe dei nostri pensieri ed avanzava lento con la testa china,  lo lasciavamo procedere libero  in direzione del sole nascente verso la tomba di sabbia che avevamo scelto per finire alla grande la nostra esistenza. Polvere alla polvere, che altro?

Quante miglia avevamo percorso? Giza, le piramidi, la Sfinge erano scomparsi, si vedeva solo sabbia e le dune ondeggiavano in un oceano d’oro arroventato dal sole, ragionavamo sul quando e sul dove ed avevamo già aperto la fondina del revolver per il subito quando improvvisamente si alzò il vento e fummo avvolti da un turbine di sabbia, la terra tremò ed il cammello spaventato s’impennò gettandoci a terra e fuggì al galoppo sulla strada del ritorno.

Quando il vento cessò e tornò la calma eravamo completamente soli, senza viveri e acqua e senza nessuna idea della posizione, il vento aveva cancellato ogni traccia. Scoppiammo a ridere, che importava per quel che dovevamo fare?                                                                                                                                    

Le sorprese non erano finite. Ad un centinaio di metri vedemmo un grosso masso nero di forma cubica,  la curiosità mise da parte ogni pensiero e ci avvicinammo per esaminarlo. Il cubo era di granito, probabilmente un pezzo tagliato per fare una statua, aveva il lato di cinque metri ed era semi sommerso nella sabbia. Facemmo il giro palpandone la superficie, era liscio eccetto una parete dove era incavata la traccia di una porta,  ai colpi della nostra mano rimbombava come se dall’altra parte ci fosse il vuoto. Iniziammo a scavare e lo portammo completamente alla luce. Il sangue nelle nostre vene era tornato a scorrere.

       

 

La porta non presentava segni di serrature od altri congegni, sapevamo bene quanto gli antichi egizi fossero maestri nel proteggere i loro segreti, stavamo per rinunciare quando notammo un’ombra a mezz’altezza dov’erano appiccicate pagliuzze di sabbia ferrosa. Per toglierle dovemmo grattare con le unghie, venivano via con difficoltà, sembravano calamitate e sotto di loro la superficie era segnata. Ci pisciammo nella mano e la ripulimmo ben bene fregando con i polpastrelli su ogni rilievo, alla fine venne alla luce una mano aperta volta dalla parte del palmo ed in mezzo le linee intersecate in una parola che non avemmo difficoltà a leggere: “TOCCACI”, scritta in italiano.

“Toccaci!”  La mano sulla parete era destra, provammo a sovrapporre il palmo della nostra sinistra ma non accadde nulla, prememmo, battemmo, aspettammo e ancora nulla, provammo ogni posizione possibile senza risultati, infine ricordammo le parole del rabbino: “ IL SIGNIFICATO  POTREBBE  ESSERE ALTRO…”  ed iniziammo ad usare la ragione.

Scomponemmo la parola in sillabe: TOC - CA - CI,  ed iniziammo dal prefisso TOC.

TOC è il suono onomatopeico con cui si indica un colpo con le nocche, toc toc ripetuto è bussare, questa è una porta e vuole che prima si bussi? Quando è stato inciso questo segno? La parola è in italiano corrente ma il segno dimostra miliaia di anni, possibile che chi lo incise conoscesse in anticipo la forma in cui si sarebbe evoluta la parola? Il blocco di granito era  usato dagli egizi per le statue,  gli egizi usavano i geroglifici e queste lettere possono essere state incise dopo, da un persiano, un greco, un latino o chissà chi? Ma anche questi avrebbero usato altri caratteri. Un ladro di tombe impossibile, l’artefice che costruì questa porta doveva avere le sue ragioni e possedere tecniche arcane e potenti. Forse qualcuno che poteva vedere nel tempo e che sapeva a chi trasmettere il messaggio! La probabilità ci balenò nella mente come un lampo: Efesto! Nell’ultima parte del libro scrive d’aver trovato l’entrata della Sfinge ed aggiunge: “Un giorno capiremo!” e queste ultime parole sono scritte in italiano corrente, la nostra lingua! Quindi la storia si interrompe.

Provammo rimorso per aver lasciato il libro a Giza ma ormai era fatto, tornare indietro era la morte e la scoperta ci aveva caricati come leoni!

Nell’introduzione Efesto scrive:             

                                                   “ Quel che cerchi oggi

                                                     È sempre stato oggi

                                                     In qualsiasi giorno.”

 

Voleva dire che oggi trovava la sfinge? Che noi eravamo Efesto e seguivamo le indicazioni di Omer?  Nella storia i personaggi si ripetono con gli avvenimenti, forse il caso non era,  poteva essere predestinazione e tutto si svolgeva sul tracciato di una musica segnato in un pentagramma fatale oppure che il sole ci stava cuocendo la testa e stavamo delirando. Nel primo caso Efesto doveva sapere  la nostra intenzione e forse è proprio nella morte l’ingresso, nel secondo che importanza poteva avere? Con tutto ciò la porta rimaneva chiusa e continuammo a ragionare analizzando il termine “CA”.

Le probabilità erano infinite, poteva essere un acronimo, in tal caso era l’iniziale di un’altra parola,  se “TOC” significava bussare come azione il secondo termine rappresentava l’oggetto da bussare, la targa era calamitata e calamita inizia con ca, prendemmo nota e passammo alla “CI”.

CI…studiammo le probabilità dalla particella pronominale al numero romano 101 e su questo ci puntammo, cosi seguiva un filo, TOC - CA - CI: bussa la calamita centouno volte! La soluzione sembrava troppo facile comunque provammo a bussare e non successe nulla,  provammo con le nocche, con le dita, con il palmo, con il dorso, nulla. Alla fine ci sentimmo ridicoli e cercammo un altro modo. Il blocco di granito serviva come materia grezza per scolpire le statue e per scolpire si “tocca” la materia con mazza  e scalpello! Dove trovarli? Cercammo intorno, tra la sabbia arroventata dal sole trovammo dei sassi , ne scegliemmo uno tondo ed uno fusiforme e con quelli battemmo sulla targa cento e una volta, nulla.

Il caldo era insopportabile, il sudore scorreva a rivoli bruciandoci gli occhi ed incollandoci gli abiti  impastati di  fango alla pelle, sembravamo l’uomo d’argilla del rabbino, ormai disperavamo e ci eravamo rannicchiati all’ombra del masso per attendere la morte quando ci venne un’ultima idea: TOC e CA potevano essere uniti e CI preso per quel che era, in tal caso la soluzione era TOCCA CI, ci alzammo e con l’indice della mano destra prememmo il CI, niente! Provammo con due dita premendo la C e la I separatamente, ancora niente.

Non restava che arrendersi, ci sentivamo delusi, scoraggiati, vinti ma non volevamo ancora ammetterlo. Forse la chiave per aprire la porta andava cercata altrove, la sillaba CI poteva intendere NOI,  la probabilità ci pareva assurda ma a quel punto che importava? Ci posizionammo davanti alla porta come ad uno specchio e ci toccammo la parte del corpo di fronte alla targa.

Con un clic le lettere scattarono,  sentimmo un brivido scorrerci la pelle,  ci fu un leggero ronzio e la porta si aprì.