Capitolo 6. Il nome non è forma.






         Il nome non è forma.
 

Alla finestra il deserto una bonaccia, su ogni grano di sabbia una pizza elettronica impulsa agitando sottili file come gambette cigliate, le dune sciacquano piatte gorgogliando vapori noiosi, un computer di tempo programmato all’equilibrio della specie, lo schifo galleggia, la poltiglia di vermi sguazza nel continuo vomito di notizie che esce dai media.

Il fuoco smorza, soffio per rianimarlo, nel sarcofago la mummia si srotola lentamente centellinando i suoi ricordi obliati da millenni di sonno condizionato, là non parlano e qua parlano anche troppo.

L’uccellino dice: ”La parola non è il corpo che la pronuncia, la forma della parola è il corpo che la pronuncia. La parola è nome, se chiamo uccello un uccello l’uccello è uccello, se chiamo uccello un verme il verme è uccello, il nome è una convenzione stabilita a priori dall’ente dominante, l’uccello può essere verme solo nella nominazione, nella realtà cinguetta, cip cip.

La nominazione non è la realtà, la forma della nominazione è la realtà. la realtà nominata è un codice di nomi che  specchia le forme fisiche della natura, il nome non è la forma fisica, gli sta di fronte.

Ogni nome corrisponde ad una forma e non è la forma corrisposta.

Se il nome è forma la parola è concetto, opinione che si frappone alla realtà, uno schermo di zecche sognanti di essere uccello tra la nominazione ed il nominato che si esprime mediante un giudizio statistico.”

Fuoco fuochino fuochetto fuocone, brucia ardi avvampa, parole, soffi d’aria, nulla.

L’uccellino continua: “L’evoluzione della specie sostituisce lo stomaco della giungla con una tomba del cimitero, la tomba non è lo stomaco, la forma della tomba è lo stomaco. Il denaro con cui si compra il cibo non è il cibo comprato, la forma del denaro è il cibo.

Per l’opinione dominante il nome è forma, la carta è cibo, la tomba è lo stomaco  della specie che digerisce il sangue chiamato denaro.”

Fuoco fuocone, il significato tra le dita della creazione, un morto putrefatto da millenni dove sguazzano vermi di tutti i colori, uno schifo spettacolare.

Parole, solo parole, aria, nulla. 

 

Al ritorno la cagna mi corre incontro festosa, sbava affamata, leccosa. Anche oggi la dea non ha pagato, nel frigo c’è la pasta avanzata di ieri, perché aspettare domani?

Inter nos: “Uno scrittore di talento deve avere coraggio, l’idea è piazzata e va calciata in meta. Ho un universale di parole da sfruttare, metà buone e metà cattive. Qualcosa in me giudica le parole ma fortunatamente non sono lo scrittore, sto sulla pagina di un libro e non ho di questi problemi, sono libero, posso fare quello che mi pare.”

Il significato non è il messaggio, il frigo odora di morte, ossa delettronizzate, da bambino mi vergognavo perché avevo i canini da vampiro come l’uccello tigre, non bevevo sangue, gli enzimi nascosti nella giungla batterica protestavano ma si dovevano adattare, niente piume per l’uccello, una pisciatina per strada e via di corsa, fatti non fummo per viver come bestie.

Chi giudica le parole? Un disco di memoria col decalogo stampato nel conto in banca scoperto, la carne nuda per il pasto dei vermi, comportamento squattrinato, prevedibile, scontato.

La pasta stantia dà il voltastomaco, provo a darla alla cagna che la rifiuta disgustata per ansare sbavando davanti al sacchetto di preservativi usati.

L’idea ronza tale mosca chiusa dentro una lampadina accesa, vuole uscire e c’è un solo modo.

La cagna abbaia affamata, giri di parole assetate di sangue vivo imprigionate nel luogo comune, lo scrittore si diverte ed il personaggio si scioglie dalle catene del giudizio scoppiando la lampadina.

Gli enzimi scoperti stanno a guardare le onde dei tam tam che ripercuotono l’etere intestinale, senza cibo dovranno mangiarsi tra loro, è automatico, brutta bestia la fame.

Modifica del sistema, a che serve l’acqua saponata?

Accendo la radio sintonizzando una musichetta allegra poi prendo una zuppiera da minestra e ci svuoto i preservativi. Sono più di sessanta, belli gonfi, umidi di bava vaginale e lubrificante, la cagna ha capito il gioco ed è pronta a scattare.

Ne prendo uno e lo srotolo direttamente sul manganello, la sborra si arriccia al contatto con l’aria colando in filamenti lattiginosi odorosi di cazzo non lavato, la cagna inizia a leccare, avvicino la lingua alla sua bavosa e la faccio scorrere sul preservativo, le lingue si toccano contendendosi la sborra, testa contro testa uomo e bestia, slappamento sincronizzato fino all’ultima goccia, residui d’odore da staccare a saliva colante.

I preservativi successivi scorrono uno dopo l’altro, la cagna ha la lingua più grande ed è favorita dall’esperienza, devo allontanarla a testate per avere la mia parte, al sesto ha capito e ci dividiamo il boccone metà per uno.

Al quindicesimo lo sborrone ha colpito ancora, lo sperma è denso, rossastro, pieno di filamenti gelatinosi con un forte odore di formaggio marcio, la cagna inizia ingolosita dalla novità, non posso essere da meno, allungo la lingua e lecco la mia parte, il gusto è piccante, sapore statistico, gli enzimi in rivoluzione fan festa alla manna che piove dalla gola applaudendo.

 Al trentesimo sono sazio, rutto, la digestione avviata felicemente procede, gli enzimi cagano concimando le radici della giungla intestinale ed il sangue porta la notizia ad ogni cellula, gli alberi crescono rigogliosi, le foglie danzano al vento, i fiori si aprono alle sborrate godute del sole.

Lascio alla cagna il resto poi sciacquo i preservativi in acqua tiepida davanti e dietro e li stendo ad asciugare.

Alla radio la musica è cambiata interrotta dal notiziario. Una voce dice che sul pianeta degli Asu, fomentata dalla morte di un grosso capo nero è scoppiata una rivolta di negri stanchi di farsi succhiare il cazzo dalle bianche, almeno all’apparenza. La voce parla di disastro economico, crollo delle borse, chiusura di banche, fallimenti, città in guerra, invasioni da altri pianeti, cumuli di morti per le strade a marcire e continua con altre notizie di bombardamenti su gente indifesa.

I preservativi sono asciutti. Li pinzo nelle bustine, spengo la radio e vado a dormire. 

 

Nel cielo color latte un falco solitario ruota pigramente poi si decide e cala in picchiata verso il fiume, l’aria del pomeriggio soffia sugli alberi che cingono la strada agitando le foglie in rapidi minuetti con giravolte e piroette lascive che drizzano i rami dove radi uccellini cinguettano in cerca di bacche da beccare, qua e là tronchi anneriti e rottami d’auto rimasti dall’incendio del giorno prima.

Il traffico scorre fino alla curva dove segue una lunga fila di macchine ferme, molti con le teste fuori dai finestrini gridano per chiedere notizie a quelli davanti, clacson strombettanti, motori arroventati, certi  vanno avanti e indietro guardando continuamente l’orologio per sbuffare d’impazienza.

Inter nos: “La dea sono due giorni che non paga, oggi le facciamo tirare fuori fino all’ultimo quattrino altrimenti…” penso a quello che farei ma non mi viene in mente nulla e lascio cadere il discorso.

Dopo mezzo chilometro dai passa parola degli automobilisti sento la causa del blocco, le voci sono discordi sul numero ma sembra che un camion che trasportava elefanti per il circo che stanno montando al luna park sia ribaltato e gli animali  scappati. Più avanti li vedo, otto grossi elefanti africani con le orecchie sventaglianti e le proboscidi sollevate che passeggiano sui tetti delle auto incolonnate. I proprietari sono tutti sul bordo della strada e gridano lanciandogli pietre, gli elefanti rispondono barrendo e pigiano le auto come uva, il più grosso inciampa e si ferisce una gamba, barrisce di dolore e impazzito saltando dalle capotte si getta su un gruppetto sventrandone un paio con le zanne poi in preda alle furie ne calpesta una decina facendo schizzare cervella e interiora sanguinanti dappertutto, risale sulle auto ed a ogni passo ne appiattisce una,  gli altri elefanti eccitati lo seguono a orchestra, lamiere sventrate, vetri infranti,  pneumatici che esplodono e si scatenano in una danza fuori programma.

Gli inservienti cercano inutilmente di calmarli, uno di loro con un cappello rosso si prende una proboscidata sulla testa che gli gira il collo e finisce a terra rantolante tra le macchine sfasciate.

Un chilometro dopo la musica cambia, si sentono degli spari, ci sono elicotteri che sorvolano la zona e sirene che suonano lontane bloccate dal traffico fermo.

Quando arrivo in vista della postazione della dea sono nuovamente tutti fuori a chiedere notizie a quelli davanti, qualcuno mi interroga ma rispondo con un boh sconsolato e procedo impettito a cavallo delle mie gambe.

Lei non c’è. Scendo il sentiero e davanti all’alcova tra i cespugli vedo una lunga fila di clienti in attesa. Qualcuno agita il pugno, altri scalpicciano impazienti, si sentono imprecazioni: “Sbrighiamoci!” “Ci sono anch’io, per dio!” “Ho fretta!” “Quanto ci vuole?”

Passo largo per evitarli e scendo al fiume, per una mezzoretta tiro sassi all’acqua dipingendo quadri d’onde concentriche che la corrente si diverte a sciogliere in mulinelli e vortici gorgoglianti, qualche pesce affiora di tanto in tanto a guardare poi si rituffa scomparendo nel fondo limaccioso.

Sulla strada le macchine si muovono, il traffico riprende a circolare, torna la normalità di un giorno come un altro.

Salgo il sentiero, i clienti se ne sono andati, dall’alcova sento la dea canticchiare nella sua lingua.

Deve essere contenta, chissà i soldi che ha fatto.

Mi affaccio dal cespuglio e chiedo: “Si può?”

“Chi essere? Se volere succhiare cazzo aspettare, adesso non potere.”

“Cosa dici, non mi riconosci più?”

“Ah, essere tu, venire presto, avere figa che bruciare e bocca diventare pallone, stamattina lavoro uno dopo l’altro, non fermare un minuto.”

Entro. Lei è distesa sul materasso a gambe spalancate, le labbra gonfie ed arrossate. La vagina ed il buco del culo sembrano bocche aperte senza denti.

Il pavimento è cosparso di preservativi usati, molti calpestati, fazzoletti di carta impiastricciati di sborra, ci sono anche dei calzini ed un paio di boxer strappati.

Inter nos: “Oggi è così, meglio approfittarne, senza di lei potrei morire di fame e tutti i miei progetti andrebbero in fumo, quello che vedo è una metafora ed il significato è un concetto in movimento che può variare in relazione all’utile che può venirmene in tasca.”

Chino la schiena, velocemente, radunandoli a manate, raccolgo i preservativi mettendoli in un sacchetto e faccio pulizia del resto.

La dea osserva e dice: “Tu o essere scemo o non capire, essere fortunato perché io buona, avere grande cuore e volere aiutare.”

Poso i sacchetti in un angolo e rispondo: “Oggi non sono in vena di scherzare, noi due siamo soci e sul lavoro bisogna essere seri.”

“Cosa dire? Cosa essere socio? Io non sapere di socio, avere figa culo e bocca, loro essere soci, loro fare entrare soldi, tu pensare a te. Cosa avere fatto a ultimi preservativi? Clienti dire che sentire cazzo più duro e venire prima, con cosa lavare?”

Inter nos: “Se la faccio fare  è capace di non pagare anche questa volta e se le dico che li ha leccati la cagna chissà come la prende, meglio cambiare discorso.”

“Ognuno ha i suoi segreti, parliamo d’affari, mi devi ancora i soldi delle ultime due consegne.”

“Cosa essere? Tu altra volta avere detto che regalare!”

“Questo te l’ho detto tre giorni fa, da allora non ho più visto un soldo.”

“Aspettare che ricordare, ieri essere incendio e scappare, perso quaderno dei conti, oggi non fermare un momento, dire due volte? Fare così, ti dare dieci euro e saldare conto, se volere ti succhiare cazzo e andare pari e oggi ti pagare nuovi, avere portato? Essere buoni come altri?”

“Ancora meglio, tira fuori i soldi.”

“Aspettare, avere messo in nascondiglio, poi prendere. Adesso riposare un momento, avere caldo,  andare bagno a rinfrescare:”

Ci spostiamo al ruscello, la dea nuda una statua d’ebano scolpita,  il profumo selvaggio della sua carne è inebriante, camminarle a fianco è puro piacere.

La dea dice indovinando i pensieri: “Non sentire cazzo diventare duro? se tu dare dieci euro…”

Lo specchio è girato con la parte riflettente verso l’albero, sul retro è appiccicato il poster di un grande capo nero americano, non dico il nome per non fare pubblicità. Ci sono anche foto di artiste nere famose e qualcuna di bianche biondissime alla Marylin Monroe. 

Lei si sdraia su una pietra piatta in mezzo al ruscello, qualche raggio di sole filtra tra gli alberi rimbalzando dagli spruzzi d’acqua al suo corpo che si illumina di riflessi dorati.

“Come piacere rumore acqua? Essere vivo, frizzante, sentire scorrere fresco su pelle, venire ad aiutare.”

Inter nos: “Questa gioca con me ma chi sta giocando? Intanto continua a non pagare, meglio assecondarla, la dea è fatta così e vediamo come va a finire.”

Mi siedo su un sasso accanto a lei, con le mani raccolgo l’acqua e gliela faccio scorrere sul corpo, le massaggio il collo, i seni, il ventre poi scendo ad accarezzarle la vagina gonfia ancora spalancata a bocca aperta. 

Lei mugola: “Mmm…tu avere mani che parlare, io sapere tu essere poeta e con parole avere tocco.”

Al fresco dell’acqua sento mescolarsi un liquido caldo, sta pisciando leccandosi le labbra ad occhi socchiusi.

Continuo a massaggiarla e lei parla: “Io essere puttana ma non essere sempre così, da bambina volere fare suora, io avere famiglia con dieci fratelli e sorelle e tanti parenti e tutti stare in capanna, avere sempre fame e andare a missione di preti cattolici. Là potere lavorare e in cambio avere scodella di minestra. Avere dieci anni e pregare sempre. Dentro chiesa c’era grande crocefisso, essere tutto nudo e avere fascia su cazzo, quando avere fame andare a trovare e parlare con lui, io essere innamorata, volere molto bene a nostro signore, poverino, lui fare così pena che fame passare. Essere tante come me che fare. Prete arrabbiare perchè dire che guardare cazzo di Gesù e non essere bene poi volere succhiare suo. Avere sborra che sapere di cacca d’ippopotamo ma io allora non capire e fare. A nostro villaggio venire spesso negri da America, da noi tutto pagare con dollari, anche cimitero se volere comprare tomba. Americani essere signori, avere tutti famiglia con tanti bambini e belle case, là avere fatto grande capo nero che comanda su neri e su bianchi, io volere diventare come loro e fare tanti dollari. Quando vedere occasione presa e partire, tante avere fatto prima e guadagnato soldi per comprare tomba in cimitero e casa in città per famiglia.”

“Dev’essere stato un esodo, in Europa sulle strade siete milioni, come fate per i dollari?”

“Tu non sapere, essere povero e non capire, soldi si potere cambiare in banca.”

“Ci sono delle leggi che vietano queste cose.”

“In Italia essere, qualcuna messo soldi in vostre banche ma polizia arrestare e confiscare, mettere tutte paura, da noi essere banca di ebrei che essere amici di grande capo nero e tutte cambiare lì, loro non chiedere e fare e nessuna polizia potere toccare,  America essere grande paese di libertà, avere esercito più forte del mondo, là nostri soldi essere al sicuro. Neri americani essere grandi signori, tutta Africa volere diventare come loro. Tu avere mani che sapere leccare come lingua, avere figa tutta tua, se dare dieci euro io…”

In quel momento sul sentiero si sentono voci strillare chiamando la dea, lei risponde e nel bagno entrano cinque puttane nere seminude infuriate ognuna agitando un giornale.

“Cosa succedere, essere matte?” Chiede la dea.

“Leggere qua!” risponde la più sexy, coi seni scoperti e le mutandine traforate,  “In America avere ammazzato grande capo, negri fare rivolta, spaccare tutto, banche avere  chiuso!”

La dea dà una scorsa alle notizie e grida: “Chi avere ammazzato? Cosa essere di soldi? Cosa dire nostra banca?”

La sexy risponde: “Non sapere ancora, giornali dire mafia ma polizia non fare indagini, dollaro non valere più niente, banca non rispondere telefono.”

Iniziano a parlare tutte insieme: “Negri americani essere bestie!” “Avere sempre detto che essere schiavi ignoranti.” “Cosa avere lavorato tutti questi anni?”

Una si avventa sulla dea gridando: “Tu avere portato banca.”

Lei risponde prendendola a schiaffi: “Tu avere detto di fare!”

Ora si azzuffano, calci, morsi, graffi, urlando nella loro lingua.

Inter nos: “Qua o la dea ne ha inventata un’altra per non pagare o sta per scoppiare un putiferio, dovevo chiederle i soldi prima. Pazienza, queste sono leonesse, quando si infuriano sbranano, meglio filarsela finchè sono in tempo.”

Prendo il sacchetto coi preservativi raccolti sul pavimento ed esco. Sulla strada il traffico scorre serrato per l’ora dei rientri, il cielo è opaco prossimo al tramonto e non vedo uccelli volare.

Sul sentiero che porta alla mia stanzetta c’è un grosso elefante con l’aria afflitta e vergognosa che cerca inutilmente di nascondersi dietro un alberello dondolando la proboscide. Riconosco quello ferito che ha spiaccicato il gruppetto che gli tirava pietre.

Inter nos: “Sa di averla fatta grossa ed ora non sa come fare, è scappato ed è giunto fin qui, forse ci stava aspettando. Un elefante mangia un sacco di roba, non possiamo tenerlo, ha la lingua troppo grande per leccare preservativi, lasciamo la favola scorrere e guardiamo quel che succede.”

 

                        La merda liberata


 

L’uccellino frulla e fa brillare la corda, la sfera dei sentimenti, i buoni e i cattivi, il piumaggio nominale riflette l’universale, la divisione formale è effetto della nominazione a priori aggiornata continuamente dalla memoria: uno schifo.

L’elefante è ammaestrato, gli manca solo la parola. Viene fuori dal nascondiglio ed inizia ad annusarmi con la proboscide, soddisfatto dall’analisi si scatena in una danza ritto sulle gambe posteriori barrendo a ritmo di rock and roll, le orecchie sventolanti.

Nella foga sradica un paio di alberi, allarga le braccia come dire: “Che ci posso fare se sono così grosso.”

Controllo la ferita, nulla di grave, era solo paura, un semplice taglietto già rimarginato.

Inter nos: “Vuol fare capire che è intelligente e può essere utile, si trova spaesato in un universale di parole e per sopravvivere ha bisogno di un uomo che parli per lui. L’idea è buona ma le preoccupazioni sono tante, se non ci pensiamo sono nessuna. Facciamo così: lo teniamo, male che vada possiamo sempre venderlo a qualcuno, è una merce rara e gli acquirenti non mancano.”

L’elefante fa roteare la proboscide ad elica verso il cielo ed alza la coda a punto interrogativo, che ci sarà lassù? Si piega sulle zampe anteriori e gli salgo sulla groppa, è comoda, sembra di avere una montagna di muscoli sotto il culo collegata al cervello, ci muoviamo verso casa.

In giardino la cagna è accucciata vicino al manganello, quando ci vede arrivare abbaia scodinzolando festosa. Annusa il cazzo all’elefante, glielo lecca mentre lui la sproboscida sotto la coda e diventano subito amici.

Inter nos: “Il luogo è un universale di nomi sciolto dalla forma fisica, libertà pura dal concetto di bene e di male, a muoversi è la navicella dello schifo tra segni puri privi di giudizio, divertiamoci.”

L’elefante intinge la proboscide nella vasca d’acqua saponata, la mescola poi soffia una trombata in do gonfiandoci intorno una bolla di sapone e la manda a volteggiare a mezz’aria. Continua un do diesis, un re, segue tutta la scala cromatica, le note ora danzano vibrando i suoni, rimbalzano tra loro esplodendo in ottave più piccole oppure appiccicandosi in accordi improvvisati, l’elefante continua a soffiarne, prendo un preservativo sborrato dal sacchetto e lo gonfio, annodo il palloncino e lo mando a saltellare nell’orchestra, si accorda subito gorgogliando di sperma a ritmo con la musica, visto l’effetto li gonfio tutti mescolandoli alle bolle, la cagna non vuol essere da meno e continua a leccare il cazzo all’elefante soffiandoci dentro a tempo, tutte le pulci sul suo pelo danzano o fanno capriole. Palloncini e bolle si dispongono strombazzando allegramente in una scala che inizia a salire e va sempre più su.

Il sole si è fermato, ha allungato un raggio a trombone e si è aggiunto al concerto, le nuvole si strusciano rullando sospiri vaporosi, il vento ci soffia sopra ad archetto facendole gemere di piacere, qualche aquila fa giravolte curiose tra gli sbuffi di vapore.

La montagna di muscoli si muove, la volontà la guida, parole, frasi, periodi, pagine senza pretese. Posa un zampone sul primo gradino della scala, lo preme per saggiarne la solidità e sale,  la musica è movimento e la scala mobile, si mette in moto trascinandoci verso il cielo, il pennato, l’elefante e la cagna.

La storia è presente nel momento in cui si scrive, la penna, i tasti del pianoforte letterale telefonano i suoni al circuito elettrizzandolo di novità in cambio di energia.

Sotto è sempre più piccolo, le città piramidi smussate formicolanti in una giungla di cemento, le montagne caccoline di moscerino, gli oceani pozzanghere, qualche aereo ci vede da lontano e cambia subito direzione.

Tra le nuvole strappo una penna ad un aquila e volo più alto, arriviamo fin sotto il cielo, provo a toccarlo con  un dito, è acquoso, freddo, duro come ghiaccio.

La scala è ferma, l’elefante tamburella con la proboscide e bussa.

Usando la penna sego un cerchio nel cielo abbastanza grande per farci passare tutti. La lastra viene via precipitando al suolo e al di là si apre un pozzo tutto nero.

                           


Salire e scendere sono relativi alla gravitazione, in giù si è attirati, in su bisogna spingere. La gravitazione inizia da un punto zero al centro della sfera terrestre e finisce con la relatività, cioè bisogna salire fin quando non si sente più attrazione e si esce dalla calamita, se non è relativo è assoluto.

Arrivati a questo punto non si può precipitare quindi non esiste giù e neppure salire perché il su e relativo al giù e senza questo si annulla.

L’assoluto è un punto di sospensione che non è su e non è giù, un luogo fuori dall’abitudine con tante domande, come si fa a stare dritti senza il su? dov’è l’avanti, in che direzione l’indietro? Posso vedere la terra e la luna, i pianeti, le stelle e l’intenzione vorrebbe spaziare e liberarsi dalle catene ma sarebbe uscire dall’assoluto per entrare in altre relatività, altri su e giù,  un passo alla volta, siamo dove siamo, fuori dallo spazio relativo, ragioniamo, diamo un’ occhiata.

Se fossi sceso perforando la terra arrivato al centro avrei trovato un altro punto limite dove il giù finiva, tutto intorno avrei potuto solo salire verso la superficie terrestre,  dove sono ora tutto intorno potrei solo scendere o precipitare nell‘universo, le lusinghe degli altri mondi sono tante, i tentacoli lunghi e fatali, come resistere?

La metafora dello spazio assoluto, il tempo, il limite, non è qua e là, non è bene e male, non è e basta.

Per convenzione il male, l’inferno, sta giù ed il bene, il paradiso, sta su. In mezzo il purgatorio non è su e non è giù, non si può scendere ma si può salire come al centro della terra, l’inferno quindi, posizione dubbia, illogica, cerchiamo altrove.

I carnivori limitano la crescita degli erbivori, gli erbivori quella dei vegetali, i vegetali quella dei minerali. I minerali stanno giù con gli animali ipogei, in mezzo una fascia di terreno fertile dove camminano i superficiali e  gli alberi affondano le radici,  sopra gli uccelli.

Da qua si vede bene, sono uno che fuma le canne, non è male e non è bene, è abitudine a contraddire i divieti, il senso di colpa precipita all’inferno ed a noi piace bruciare, inferno capovolto in paradiso, in mezzo l’ente giudicante, il cazzo negato del povero cristo che trascina la croce, l’albero scortecciato al supplizio, il meccanismo inserito, come schiodarsi?

In mezzo l’humus giudicante semina la giungla di icone buone e cattive alla lavagna divise da una riga, su a destra e giù a sinistra, gli alberi si sono estinti ed i minerali liberi dal limite si sono prolificati in paesi e città di pietra e mattoni, macchine, computer, il giù è salito, l’inferno nel purgatorio aspira al cielo, la trinità è uno, la bestia  è ragione, capovolgimento della natura, la bocca è culo e caga giudizi sborrati nel culo da cazzi potenti, in mezzo il cuore, la giungla di cemento, New York, inferno, purgatorio e paradiso,  intorno il deserto scroscia spinto dalle maree della doxa.

La metafora è climax, concetto in movimento e cresce, gonfia, lievita, profumo di pane appena sfornato e di vino da mescolare al sangue.

 

La puzza è relativa al giudizio, un’abitudine statistica agli odori, il tartufo ad esempio non a tutti piace, le lumache c’è chi le mangia vive e chi ne ha schifo, la figa non a tutti piace leccarla e c’è chi fa scorpacciate di mestruo a lingua battente, non tutte le donne succhiano il cazzo e certe bevono sborra e piscio come gazzosa, si potrebbe elaborare una statistica per tipologie distinguendo i carnivori dagli erbivori e poi metterli alla prova, i casi limite contengona la piena ma è un mondo sommerso dal male ricoperto da una facciata perbenista, un doppio comportamento ereditato dal transfert generazionale che non è uno e non è l’altro.

Tutto questo lo capisce anche l’elefante, alla cagna non gliene frega niente e guarda a lingua colante, dicono toccare il cielo con un dito, se non è caldo è freddo, giù le fiamme dell’inferno, su un buco nel ghiaccio, se non è corpo è parola, giù la terra su dovrebbe esserci la ragione umana invece un pozzo nero, una cloaca che assorbe tutte le merde cagate da uomini, animali ecc.

Il problema della merda è fondamentale, solo la parola è considerata parolaccia, il cibo è bene la merda è male, il cibo non è la merda, la merda è la forma del cibo, il cibo è l’idea, la merda la forma realizzata e non a caso.

La metafora cresce, nella fogna non ci sono corpi, solo parole, frasi, periodi ed è quel che si vede.

La proliferazione dei minerali è effetto della negazione etica della merda, che puzza, l’humus, il tappeto di merda si è ristretto a poche isole verdi sostituito dal cemento ed è vietato cagare, perfino le merde dei cani bisogna raccogliere e nascondere. La copertura della merda è la facciata di un cassonetto di rifiuti ad immagine statistica del totem di riferimento.

L’elefante cammina sulle parole, sulle frasi ed i periodi schiacciandoli con i suoi zamponi e si diverte un sacco, la cagna ci piscia sopra, la ragione illumina,  probabile, sotto tutta questa merda piumata da pregiudizi di facciata, case, edifici, grattacieli di parole, sistemi, grandi cattedrali di frasi, dogmi, credenze e abitudini.

Son solo parole ne vere ne false, il giudizio del totem dà loro corpo, una merda di cane incellofanata dentro un cassonetto di rifiuti, noi siamo parole scritte sul video di un computer, un effetto e non abbiamo colpe, l’autore che scrive invece è incuriosito perché lui è il totem della metafora e la causa non è l’effetto.

 

Sulla superficie della sfera ogni punto è una proiezione del centro collegato a questo con un raggio di andata e ritorno, un punto qualsiasi l’assoluto collegato all’universo, intorno girano pianeti, stelle come una immensa ruota panoramica.

Lo scarabeo cammina all’indietro, indietro e la forma di avanti, chi lo incontra vede la palla di merda che spinge, la facciata dell’universo.

Mostrare le piume è prendere fuoco,zuppa di idee, ogni piuma un raggio di sole, uno spermatozoo inserito nell’ovulo concimato, un idea fecondatrice per dare forma all’assoluto.

Il regno minerale ferve di vita, un oceano di elettroni scorre trasmettendo il calore, dinamo girano ovunque, frigoriferi per assorbire e tenere al fresco, fornaci per sciogliere e trasformare, vene e arterie trasportano acqua sopra e sotto la superficie, fiumi di lava, ghiacciai, maree di sabbia, polveroni, onde sismiche tempeste d’energia repressa, vulcani pustole scoppiate, eruzioni, colonne di fumo tra le nubi che riportano il mare alla montagna.

Il corpo nudo del pianeta, la sua ossatura, uno scheletro in superficie ricoperto da una pelle di merda piumata da alberi, la casa è albero, il mattone è legno, i tubi trasportano la linfa verso gli appartamenti, le finestre aperte accolgono il sole imprigionandolo dentro gabbie dove canarini e cocorite cantano senza convinzione, la proliferazione dei minerali ha invertito la fotosintesi, il sole è terra, raggi di petrolio portano l’energia alle caldaie invertendosi in fiumi di denaro che irrorano le strade dove facciate ben pensanti avanzano il nome del padre divorato trascinate al contrario dal senso di colpa, palle di merda di tutti i colori, rotolando si avvolgono di denaro e crescono, gonfiano, lievitano per scaricarsi nelle banche cassonetto in cambio di numeri stampati su pezze di carta con cui fasciarsi il culo.

La giungla metallica è abbozzata, i tam tam battono incessanti, il sangue è denaro, vampiri in camice lo succhiano ed il resto è spartito tra i parenti con la faccia piangente ed il culo ridente, le notizie si accavallano e cementano il potere, in alto, dalla punta dei grattacieli al deposito frigorifero di Paperon de Paperoni, la banca delle banche, da tutto il pianeta eserciti di puttane negre ci sputano lo sperma non ingoiato, i medici ci vomitano il sangue non digerito, le formichine ebree ci scaricano le loro pelli barattate, le dinamo di raccolta sono ovunque,  la facciata si tuffa ed esce piumata presidente.

Un punto qualsiasi può essere qualsiasi punto, il presente è assoluto, prima o poi relativo, in atto non è in potenza, di fronte lo specchio riflette l’incendio di New York,  Nerone alla finestra più alta dell’Empire suona la lira  cantando il requiem.

L’universo in fiamme, la penna ha preso il fuoco e lo trasmette alle bande di bianchi e neri piumati che dalle giungle periferiche si riversano su Manhattan urlando e mordendo a sangue chiunque incontrano, grattacieli di numeri senza forma crollano polverizzandosi al suolo, l’elefante procede saltando dai marciapiedi sulle teste dei rivoltosi alle macchine alle punte dei grattacieli ancora in piedi, con la proboscide li fa a fette, salsicce piena di merda e di grassi vermi che precipitano al banchetto dei rivoltosi, la cagna guarda ed ogni tanto si gratta una pulce.

Il tempo non ha importanza, i ritmi della natura non conoscono fretta, l’incendio è fatuo, bruciano numeri senza sostanza, carne di morti da secoli, nomi senza corpo, si anima con le bombe atomiche, depositi sotterrati di conti falsi, il debito è credito, montagne di dollari inesistenti, la piazza esplode, la città brucia in un attimo, subito dopo un tappeto di cenere ricopre tutto.

L’universo si scrolla la polvere con le mani poi le intinge nell’assoluto ritraendole piene di merda e si spalma la testa e tutto il corpo, qua e là iniziano a spuntare alberi, è tutto un rigoglio, certi crescono alti come grattacieli, foreste risplendono al sole, su un grosso castagno si sta arrampicando l’uccello tigre.