Capitolo 5. La tribù dei pennati.



        La tribù dei pennati.      

 

 

                     Nota dell’uccellino.


 

“Il nominalismo nega la forma: se il nome è forma la forma è nome e se è nome non è forma, quest’ultimo non è forma è applicato ad una forma che è  il nome nell’enunciato iniziale, il nome diventato forma nega la forma e se non è forma è nome. La logica del nominalismo è: “il nome è forma.”

La parola dio è diventata  corpo, la forma della religione.

Se il nome è forma la causa è effetto e se è effetto non è causa, il bene è male e se è male non è bene, dio causa della creazione nega il peccato originale effetto creato e prende forma di bene e l’effetto prende la causa di male.

Il nome male è forma a priori, un giudizio scritto, una legge dogmatica che nega la causa di male in dio dandogli corpo, esistenza, mentalità, comportamento, ecc.

Ad appiccicare i giudizi scritti agli effetti invertendoli in causa di male sono gli uomini di penna.

Es: se il nome è forma il singolare è plurale e l’uno è tutto,  l’uno è tutto o l’uno è tre del dogma trinitario è nominalismo.

Giordano Bruno era un uomo di penna, un filosofo il cui strumento di logica era “uno è tutto”  ed arse sul rogo perché sosteneva il sillogismo che dà forma a dio ed alle religioni, un martire creato ad hoc,  chissà chi bruciò al suo posto.

Bene o male non è, se la ragione nega la religione ed i preti chi è contro di loro è ragione,  la ragione applicata è solo nominale, un nome a priori senza forma che viene calato in un personaggio mito, un totem che dà forma alla tribù di credenti.”

Il fuoco sul sarcofago arde jocondo, robustoso e forte, la mummia all’interno ha stoppino da vendere, plasmarlo è domarlo, bastone e carota, amore e odio, carezze e frustate, baci e morsi rabbiosi, le fiamme bruciano l’ardore che le alimenta e l’idea prende forma per ardere,  annullarsi e riprendere forma.

Alla finestra il deserto appare fasciato da rotoli distesi di carta stampata, notizie a cui si sovrappongono notizie a cui si sovrappongono notizie, qua e là ardono i roghi della pubblicità: “Guardate che bell’uccello, questo sì che piscia lungo!”

Fuochi fatui che alimentano il ricordo di morti mantenendoli vivi per la morte dei vivi, il tempo giace sepolto sotto la mummia di carta stampata e risorge a ghiribizzo degli interessi di potere, sopra le ondate di parole scritte lo schifo galleggia impassibile col suo carico genetico, una poltiglia putrescente dove sguazzano larve di tutte le specie, la stessa vita che anima i vermi dei cadaveri scorre nelle ali delle aquile tra le nuvole, delle mosche sulle merde o delle tigri che sbranano. Ai polli poco importa se a mangiarli sono aquile o avvoltoi, quello che importa è il nucleo riproduttivo della specie che lo schifo trasporta. 

Il climax che porta alle stelle sale e scende tra uccelli in gabbia che si credono male e mummie ben fasciate che si nominano bene perché non sono quel male, solo l’uccellino resiste  cinguettando sulla scala a piacere dal do al si.

Fuoco fuoco delle mie brame, fuoco fuochino fuochetto fuocone…

La storia riprende dall’inizio. 

 

                  L’uomo zecca.


 

Ogni cosa tornava alla polvere prima della creazione.  Ora, mentre scriviamo,  vediamo chiaramente il succedersi dei fatti come un percorso logico, eravamo fuori dallo spazio all’interno di un  attimo presente che scorreva all’indietro nelle probabilità del tempo verso l’origine.

La grotta era tornata alla forma iniziale, le ossa si sbriciolavano impalpabili sotto i nostri piedi, ci soffermammo a guardare delle aperture nelle pareti che emanavano una pallida luce, all’interno erano accatastati uno contro l’altro mucchi di corpi rattrappiti dai millenni avvolti da spesse ragnatele che li fasciavano come mummie, i fossili erano giganteschi ed ognuno stringeva tra le braccia incartapecorite una clava di pietra. Erano disposti su tutto il perimetro alla base, ce n’erano miliaia, davano l’impressione di un esercito di morti posti a guardia  della grotta. Qualcuno ci fissava dalle orbite vuote ma fortunatamente nessuno si mosse.

Raggiungemmo l’ingresso principale, una grande botola circolare che si apriva su una galleria che scendeva in diagonale. La statua di Ixo era scomparsa, al suo posto trovammo una vecchia conoscenza e la cosa non ci sorprese.

Seduto nella polvere con la schiena appoggiata alla parete c’era il rabbino, vestiva una tonaca nera lacera e consunta e teneva il viso nascosto sotto il cappuccio lasciando scoperto solo l’occhio che lampeggiava  dal centro della fronte. Tra le mani stringeva un lungo bastone da cammino, nero e bitorzoluto ed aveva un rotolo della torah in pergamena legato a tracolla.

Rimanemmo qualche minuto in silenzio a fissarci, sentivamo il suo respiro rantolare dietro ai brividi di gelo che uscivano dalla galleria.

“Ti stavo aspettando.” disse.

“Sapevamo di te, abbiamo letto il messaggio.”

“Ti è piaciuto lo spettacolo?”

“Sì”

Il rabbino si fregò la pancia: “Tutto nelle nostre budella, chi l’avrebbe mai detto?”

Ruttò, rise sguaiatamente e continuò: “Siamo alla fine della strada, l’ultimo tratto lo faremo insieme, tu sai cosa voglio?”

“Lo immaginiamo.”

“Tu sei intelligente, molto, capisci e non temi nulla anzi, vedi la trappola e ti getti dentro incurante di qualsiasi pericolo, come ti ammiro. Millenni fa noi due facemmo un patto, tu firmasti col sangue,  è giunto il momento di rispettarlo.”

“Ti sbagli, questa volta non c’è stato rinnovo, Ixo è a Giza ancora viva.”

“E’ quello che credi.”

“Ricordiamo benissimo, fuggimmo per non spargere quel sangue.”

“Ti sbagli, tu l’hai uccisa e fatta a pezzi nel solito modo coprendo il tuo nome col suo sangue.”

“Tu menti, vuoi confonderci, impossibile!”

“Guarda.” disse ridendo indicando un cumulo di carne ed ossa sanguinolenti poco distante.”

Rimanemmo impietriti dallo spettacolo. Sopra il cumulo la testa di Ixo sorrideva con la bocca squarciata che grondava sangue.

“Tu l’hai uccisa!” Esclamammo.

“Eri in preda alle furie, fuori di te, l’hai fatta a pezzi con l’ascia e poi sei fuggito ed hai dimenticato. Era il tuo destino. Alì ha raccontato tutto, a Giza ti stanno cercando per linciarti, non hai più scampo, il tuo nome sarà maledetto in tutto il mondo, i tuoi lavori, i tuoi libri, le tue ricerche, tutto perduto.”

Cercammo di mantenere la calma per non trascendere nell’odio che ci ispirava. Dicemmo: “Tu menti! Una messinscena! Chi l’ha portata qui?”

Il rabbino riprese a ridere sguaiatamente e la testa di Ixo sul cumulo strillò, gelandoci le ossa: “Brutto cagone ammuffito, ci sono venuta con le mie gambe!”

Le sue membra si stavano ricomponendo, in breve fu nuovamente in piedi viva e più bella che mai e subito dopo si trasformò in statua. Con uno sfrigolio scivolò sulla sabbia scomparendo velocemente nella galleria.

“Questo è un sogno, un incubo!” gridammo.

“Chi credevi di essere?” continuò il rabbino. La sua voce era diventata tonante e rimbombava nella grotta echeggiando da ogni parte. “Hai dimenticato Omer? Non ti sei chiesto perché la statua è intatta quando lui scrive di averla distrutta?”

“Vuoi dire che noi, tu, Ixo e tutto quanto viviamo nel sogno di Omer?”

“Un sogno, che altro? Anche Omer era un sogno e prima di lui e ancora prima, dall’inizio un lungo giro che stiamo percorrendo da secoli, millenni! Ricordi? Quando firmasti ti promisi l’eterno, così fu la prima volta, sei pronto ad entrare?”

Eravamo confusi ma la ragione non ci abbandonava: “Se è come dici Omer si sta risvegliando, in questo caso noi svaniremmo nel nulla, siamo un sogno, di che eterno vai parlando?”

In quel momento notammo un’ ombra coperta dalla sabbia muoversi e starnutire.

Un essere informe, piccolo gobbo e rattrappito si alzò continuando a starnutire e con un balzo andò ad accovacciarsi ai piedi del rabbino.

Aveva il corpo dalla testa ai piedi completamente ricoperto di zecche gonfie di sangue. Le palpebre, appesantite dai parassiti, si aprivano appena per far trasparire occhi vitrei e terrorizzati. Tra le mani stringeva un corno da caccia.

“Calmati Esopo.” disse il rabbino accarezzandolo con la punta del bastone, “Il signore non ti toccherà, lui ha schifo di te.”

Detto questo staccò con due dita una grossa zecca sulla testa del gobbo, ne spiccicò il capo con i denti e la inghiottì masticandola e assaporandone il gusto ad occhi chiusi.

                  

La metamorfosi di Ixo ci aveva raggelati, il pensiero si era bloccato, nei pochi giorni di convivenza a Giza ci aveva acceso di una passione incontrollata, un fuoco  che avvampava furioso crescendo di ora in ora, cercavamo di combatterlo con la ragione ma inutilmente,  le nostre membra lottavano con la vecchiaia che le intorpidiva, in noi si era risvegliato qualcosa a cui non sapevamo dare un nome che nel pensiero l’amava, la prendeva, la penetrava col corpo di un giovane, il corpo di un altro. In quel momento la passione era spenta, non ragionavamo ma la disillusione ci aveva aperto gli occhi e ci rendevamo conto che quello che vivevamo poteva essere solo ed esclusivamente il sogno di un morto che era trasmesso di generazione in generazione nella mente dei vivi attraverso il ricordo stampato sul libro.

Il rabbino succhiava e masticava la zecca con espressione estasiata, intanto il suo occhio ci fissava spiando ogni nostra reazione, rimanemmo impassibili controllando il disgusto che ci assaliva, la situazione era paradossale ma avevamo intuito il suo gioco e guardavamo avanti.

 Il prete deglutì facendo rimbombare la caverna. Disse: “Un boccone veramente squisito, sano, nutriente e vivo! Le zecche possiedono sostanze che impediscono al sangue di coagulare e lo mantengono fresco per giorni.” Colpì il gobbo con il bastone facendolo allontanare di qualche passo e continuò: “Esopo è il compagno ideale nei lunghi viaggi, non occorre portare provviste, pensa a tutto lui. Se vuoi serviti, ce n’è a volontà.”

Riconoscemmo nello sventurato il servo che a Giza aveva cucinato il capretto, su di lui le zecche formavano un involucro impenetrabile solcato da canali dove i parassiti marciavano fitti spostandosi da un punto all’altro.

Guardava a terra con occhi spenti e rassegnati emanando una pena struggente.

Evitammo di farci contagiare e dicemmo: “La cosa non ci impressiona e nonostante siamo digiuni da due giorni non ci mette appetito. Torniamo a parlare del nostro patto.”

“C’è poco da dire, biascicò il prete leccandosi il sangue sulle labbra. “Siamo arrivati al traguardo, si tratta solo di muoversi per l’ultimo tratto.”

“Tu la fai facile ma a noi non lo sembra affatto, siamo in un sogno, il sognatore si sta svegliando e quando si sveglierà chi di noi troverà l’Eterno?”

Il volto del prete era tornato in ombra e solo il suo occhio parlava: “Che domanda, hai paura? Noi naturalmente.”

“Vuoi dire tu, la statua di Ixo e le zecche di Esopo, credi che  staremmo ad un simile gioco? Tu stai mentendo, in qualche modo sei riuscito a trascinarci nel sogno ed ora dici di essere giunto alla fine, in tal caso che bisogno avresti di noi? Per quale motivo aiutasti Omer ed Efesto indicando loro la via da seguire nell’interpretazione del testo? Un’intenzione trattenuta, una fiamma soffocata dal sangue di Ixo che rivive nel sogno incatenata al senso di colpa, perché proprio noi e non un altro?”

“Tu sei intelligente, ” replicò il rabbino abbassando l’occhio. “dovresti capirlo da solo.”

“Infatti ma la verità appare talmente paradossale da non essere credibile.”

“Eppure è semplice.” Col bastone fece avvicinare il servo, staccò una grossa zecca che sporgeva da un orecchio e ce la porse: “Tieni, assaggia, prova.”

Il parassita era gonfio di sangue bluastro ed agitava le zampette cercando di liberarsi.

Voltammo la testa ed il prete rise, inghiottì la zecca facendola scoppiare con i denti e domandò: “Stomaco delicato?”

Ci facemmo forza per non vomitare, intanto l’intuizione si stava rafforzando e dicemmo: “Il sognatore è morto da millenni, il sogno è stato tramandato nella specie umana, nella mentalità e si è trasmesso ad oggi incurante dell’evoluzione che gli uomini nel frattempo hanno compiuto. Tu vuoi risvegliare questo cimitero!” esclamammo spaziando la mano sul tappeto d’ossa che ricopriva la grotta.!”

“Bene!” ribattè il prete, “Ricominceremo dall’inizio.”

“Intendi sempre tu, la statua e le zecche e noi imprigionati nella mente a ragionare per te.”

“Questa è un’ipotesi.”

“Forse. Chi sei tu veramente? Indovino, prete egiziano, rabbino, la parte che hai recitato è sempre stata contraria alla ragione ed ora cerchi di disgustarci, di farti odiare per accrescere questa separazione. Tu indicasti ad Omer di cercare il bene nel male, ad Efesto la chiave per comprendere l’alfabeto figurato, a noi la logica della maledizione di Eva ed ora ci tenti all’ultima fatica, perché?

La risposta può essere solo questa, noi siamo l’intenzione superstite del sognatore tramandata mentre la donna negata viene fatta a pezzi dando forma a te ed alle zecche che ti nutrono,  il sangue della specie di cui  trasciniamo il ricordo. Questo sogno è infame, la specie preumana terminò con l’adozione del linguaggio e la parola che venne introdotta nella bestia si addormentò per sognare questa storia,  quella parola tu la vorresti trasformare in una zecca da succhiare in eterno. Ti sono utile perché da solo non esisti, sei un effetto che il giudizio della ragione crea, un golem, un automa meccanico e le tue azioni sono naturali e prevedibili. Ora stai cercando di distruggerci per mantenere la forma che ti sfugge, è quello che credi, solo una credenza, in realtà tu ubbidisci alla spontaneità del sognatore ed il male che ci ispiri è solo una copertura, una nostra copertura, noi due siamo la stessa cosa, tu non esisti fuori di noi.”

Il rabbino disse: “Un’ipotesi come un’altra, anche tu credi di essere bene perché per la ragione sono male,  quale bene? A Giza ti cercano per linciarti ed ora puoi solo continuare su questa strada o morire per sempre, come preferisci.”

“Bene o male non ha importanza, comunque siamo già morti miliaia di anni fa ed un morto che muore rinasce alla vita, noi ti vediamo proiettato nel sogno e quando ci sveglieremo sarà quel che sarà.”

Eravamo euforici, fuori di noi, l’impeto ci trascinava, ci chinammo su Esopo e staccammo una zecca con i denti, la masticammo e inghiottimmo impassibili come statue. Il gusto era dolciastro nient’affatto sgradevole.

Il servo ci guardò con occhi riconoscenti.

Il rabbino era scomparso.

 

Dalla galleria proveniva una corrente d’aria gelida che sfociava nella grotta sibilando tra le asperità delle pareti.

Guardammo Esopo che ricambiò lo sguardo ad occhi chini. “Perdonatemi.” disse, “adesso sono suo, faccia di me quello che vuole.”

I parassiti stringevano le sue labbra e la voce usciva stentata, balbettante, soffiata.

Emanava una pena da rattrappire la pelle.

“Forza, tirati su.” dicemmo per confortarlo,  “Il rabbino non esiste più e tu appartieni solo a te stesso, usciti di qui troveremo un modo per curarti.”

La voce del servo cambiò, divenne tonante come quella del prete: “Non mi trattare così, non sono affatto scemo. Il rabbino non è scomparso, va e viene, è radicato, non ti libererai di lui facilmente!”

Con un singhiozzo la voce cambiò e tornò umile: “Perdonatemi, che ho detto? A volte parlo e non so cosa dico, sono le zecche, loro, è colpa loro, perdonatemi…lei non mi considera parte del tutto?”

La domanda ci sorprese e ci fece riflettere. “Chi sei veramente?” gli chiedemmo.

“Perdonatemi…lei mi vede così e pensa che…perdonatemi…io sono così, sono sempre stato così, non voglio cambiare, là fuori sbranano e loro mi proteggono…” accarezzò le zecche con amore e continuò: “una volta, è passato tanto tempo, se sapesse…”

“Che cosa facevi con il rabbino?”

“Lui non è cattivo, non pensi male, è qui, è là, è dappertutto, adesso è così, non c’è ma potrebbe esserci, lui mi ha detto: “ti porto da un nuovo padrone, raccontagli tutto.” io non volevo,  piangevo,  supplicavo, sa…quando mi attacco a qualcuno per me…aveva previsto le sue parole, è vero e allora eccomi qui, ora sono suo, perdonatemi…”

Mentiva istruito dal prete o era sincero? La rivelazione allargava la visuale sul campo ma poteva essere una trappola e preferimmo procedere con cautela senza dar peso e giudizio alle parole che diceva, se era parte del tutto era un’ aberrazione della natura, quale uomo potrebbe sopportare simile peso? Oppure eravamo noi limitati da non saper comprendere la totalità dell’universale? Trappola o no non potevamo tornare indietro, l’intuizione ci consigliava di approfittare dell’occasione,  ormai la zecca l’avevamo mangiata, il limite che separa il bene dal male si era spostato facendo reclinare la bilancia della nostra ragione verso il non essere del sogno. La meta era la Sfinge, l’enigma del risveglio, l’eterna giovinezza.

La penombra che oscurava la grotta ed i suoi fantasmi era opprimente, eravamo attanagliati dalla fame e non avevamo altra scelta che procedere.

Esopo disse: “Lo vedo, lei non sa decidersi perché non ha ancora capito come facevano a piumarsi.”

“E’ vero!” esclamammo sorpresi. “Tu ci leggi nella mente.”

“Ebbene, perdonatemi, che importa?”

“E’ fondamentale! Quel piumaggio doveva essere ben saldo se era necessario arderlo per spogliarsi e non abbiamo visto nessuna penna nel lazzaretto.”

“Infatti si piumavano fuori, perdonatemi, io lo so, c’ero, vedevo, a quei tempi, poi…se vuole le racconto tutto, ma andiamocene da qui, fa così freddo e tutti quei morti quando un tempo erano vivi, sa…potrebbero tornare, hanno  denti come i lupi e solo la vista del sangue…lo dico per lei, non è neppure fasciato…perdonatemi, intanto se vuole…lo vedo che ha fame, approfitti, loro…sono talmente tante che più se ne toglie e più ne crescono, a me fa piacere, sa…perdonatemi.”

“Tu cosa mangerai?”

“Io?…oh, per me va bene tutto, mi arrangio, se vuole caghi per terra e poi non guardi, sa, noi siamo così…”

Esopo ci affascinava ma non volevamo ammetterlo e ci incuriosiva, stringemmo la cinghia e dicemmo: “Andiamo.”

La galleria scendeva per un centinaio di metri poi proseguiva in piano in un lunghissimo corridoio di cui non si vedeva la fine rischiarato su ambo i lati da incavi nelle pareti  posti a cinque metri uno dall’altro dove erano stipati corpi incartapecoriti di fossili preumani mummificati dalle  ragnatele che emanavano fosforescenze luminose.

Il vento soffiava ad intermittenza strusciandosi alle pareti segno che da qualche parte doveva esserci un uscita.

Esopo accennando alle mummie disse: “Non le guardi, perdonatemi… loro sono morti ma non si sa mai, è un‘altra storia, adesso…perdonatemi.”

Soffiò dal corno una nota senza suono ed iniziò a raccontare:

 

“A quei tempi non parlavamo ancora ma ci capivamo benissimo. La nostra razza è particolare, ci si incontra poi le zecche si attaccano e si diventa così,  perdonatemi…questa è una storia che ha poca importanza,  di solito stiamo sui bordi dei sentieri, nascosti tra gli alberi e quando vediamo uno che ci piace usciamo fuori e ci offriamo. Solo agli uccelli però, perdonatemi…gli altri non ci interessano e li evitiamo.

Eravamo in tre, io, l’uccello che servivo ed il cavallo, eravamo giovani e stavamo nella savana, ai confini del nostro territorio, a caccia di neri. Perdonatemi, allora non sapevamo che era male e ci divertivamo moltissimo.”            

        

                 L’uccello, il cavallo e la zecca.


 

“Per poter capire bisogna prima che le descriva l’ambiente dove vivevamo.

La specie preumana occupava un continente vastissimo circondato dall’oceano ed era divisa in tribù di bianchi e di neri, come su una scacchiera.

Ogni tribù aveva un suo centro particolare dove veniva innalzata la piramide principale che custodiva il nucleo di riproduzione e tutto intorno si sviluppava una giungla intricatissima che cresceva a sua immagine coprendola e proteggendola dall’esterno.

Questa crescita non era illimitata, ciclicamente gli alberi diventavano vecchi e per colpa dei fulmini o dell’autocombustione si incendiavano distruggendo tutto eccetto i nuclei centrali che erano allo scoperto e da lì si ricominciava, noi e gli alberi, a crescere e questo avveniva quando i territori delle varie tribù venivano a contatto. Una scacchiera con una giungla che cresceva in ogni casella.

A quei tempi eravamo in una fase di espansione prossima alla fine, lo spazio che ci separava dalle tribù confinanti in certi punti si era ristretto ad una centinaio di chilometri e dalla cima degli alberi al confine si potevano vedere fumare le piramidi dei nostri vicini.

Queste giungle erano delle ragnatele acustiche e servivano tra le altre cose a catturare le invasioni dall’esterno che cercavano di occupare nuovi spazi.

Alcuni di noi erano adibiti a sentinelle, si rivestivano completamente di cortecce e foglie per mimetizzarsi con l’ambiente e quando un estraneo cercava di entrare davano l’allarme con i tam tam,  in base al numero degli assalitori potevano far accorrere   tutta la tribù.

Questo reticolato sonoro coincideva con i percorsi delle gallerie sotterranee che erano tutte collegate al centro ed avevano sbocchi secondari intorno ai quali venivano costruite piramidi di terra.”

“Una sintesi dettagliata” dicemmo. “oggi le città hanno sostituito la giungla ma non ci sembra che le cose siano cambiate di molto.”

“Perdonatemi, questo non è affar mio, il rabbino ha detto “raccontagli tutto”…non interrompa altrimenti mi confondo.”

“Ora sei al nostro servizio, siamo noi a dare gli ordini.”

“Come vuole, perdonatemi…intanto…lo vedo che ha fame, si serva, non faccia complimenti.”

Le zecche sul suo corpo vibravano gonfie di sangue, sembravano chicchi d’uva passa, il nostro stomaco brontolava e l’intuizione ci consigliava di non essere schizzinosi. Ne staccammo una dalla nuca e la inghiottimmo senza pensare.

La galleria proseguiva diritta, il pavimento felpava i nostri passi rendendoli silenziosi come un volo d’uccello, quell’insolito cibo ci aveva caricato di energia rischiarandoci i sensi e la mente, le piramidi, la giungla, i tam tam, le immagini si aprivano e noi entravamo nei personaggi e vivevamo con loro.

Esopo continuò: “Ecco, ha visto? Così va meglio. Si serva ogni volta che vuole, una manciata basta per un giorno ed io sono contento.

Adesso mi lasci raccontare, sa, quei tempi era tutta un’altra cosa, quando catturavamo una banda di invasori era una grande festa, perdonatemi, noi non sapevamo che era male, c’era da abbuffarsi,  quelli che avanzavano li azzoppavamo per non farli scappare e li mangiavamo poco per volta.

La fascia di confine della giungla era divisa in settori ognuno capeggiato da un uccello tigre ed era  popolata da ogni sorta di individui organizzati alla sua difesa in modo completamente naturale. 

L’uccello che servivo, non pensi male, a quei tempi… è meglio che le dica tutto.

I cuccioli dopo lo svezzamento venivano raccolti all’interno di fosse che li isolavano dalla giungla e lì ogni generazione si organizzava in una gerarchia che continuava per tutta la  vita. Gli uccelli stavano al vertice, essi erano, come si direbbe oggi, delle specie di cantastorie, sapevano organizzare e dirigere il comportamento della tribù con spettacoli di guerra e di caccia che coinvolgevano e divertivano tutti, almeno quelli che non venivano mangiati.

Anche tra loro c’era una gerarchia, al vertice stavano gli uccelli tigre, perdonatemi…erano una cosa…una ferocia…una voracità…ma a quei tempi nessuno sapeva che era male, il comportamento era spontaneo, assolutamente naturale.

L’uccello che servivo era tigre, mi aveva preso insieme al cavallo ad un suo rivale più vecchio e molto più forte senza usare le mani, lo fece cadere in una trappola offrendosi come esca.

Ogni uccello deve avere un cavallo, sono tipi grandi e grossi ma molto stupidi che si possono addomesticare facilmente e se gli si dà da mangiare diventano fedeli e inseparabili e deve avere uno come me, un porta zecche ben fornito.

Noi fungiamo da messaggeri, se la caccia va male compensiamo al cibo mancante inoltre abbiamo un fiuto eccezionale ed i miei animaletti sono dotati di organi sensoriali che sentono l’avvicinarsi di sangue caldo alla distanza di chilometri e sanno avvertirci e dirigerci sulle prede con precisione infallibile. Siamo buoni anche come merce di scambio, poi le racconterò.

Nella giungla la copertura è importante, ovunque sono nascoste insidie e se non si protegge il proprio corpo si finisce sbranati. Quando c’è da fronteggiare un’invasione la tribù si unisce compatta ma in tempo di pace si salvi chi può.

Il cavallo era fasciato con le pelli dei neri che il padrone precedente aveva catturato, io avevo le zecche e lui era imbudellato con un ciuffo di penne di cigno pinzato sul capo. Eravamo entrati nella savana in un punto ristretto fuori dai confini di nostra competenza, gli alberi erano radi e procedevamo nascosti tra l’erba avvicinandoci al territorio dei neri. Nelle zone di ristrettezza gli sconfinamenti erano frequenti ed era facile trovare prede. Le mie zecche erano agitate e segnalavano pericoli dappertutto.

C’erano anche piccoli dinosauri che vagavano in cerca di cibo ma quelli stavano alla larga.

La notizia era sorprendente: “Un momento, tu corri, aspetta, vuoi dire che vivevate ai tempi dei dinosauri?”

“Perdonatemi, adesso perderò il filo, ebbene sì, ma erano piccoli, raramente se ne vedevano di grandi e solo dove lo spazio lo permetteva.  Crescendo le nostre giungle inglobavano ogni forma animale estinguendole in breve tempo. Allo scoperto eravamo deboli rispetto a loro ma dentro le foreste non avevano scampo.”

“I dinosauri si sono estinti da milioni di anni, come è possibile?”

“Perdonatemi… adesso penserà…non erano neppure rettili, il rabbino mi ha detto: “Ti porto da un pennato, uno studioso di talento…lei crede a quel che dicono i libri? ma allora…comunque questa cosa non è importante.”

“Certo che lo è. Ammettiamo che i libri mentano sulle date e sulla specie, resta il fatto che si sono trovati fossili di dimensioni enormi,  carnivori,  il tirannosauro rex ad esempio, come potevate convivere?”

“Dà troppa importanza alle dimensioni. Erano bestioni stupidi che iniziarono ad estinguersi quando la nostra specie uscì dall’incubatoio sotterraneo. Scavavamo delle grandi buche con pali appuntiti in fondo e li facevamo cadere dentro.  Perdonatemi, le posso assicurare che in fatto di ferocia nessun animale può essere  paragonato all’uccello tigre, il budello che lo ricopriva era morbido ed aderente ed era ricavato dal pene dei tirannosauri. Adesso non ricordo più quello che dicevo, dove eravamo rimasti?”

“Eravate usciti dai confini a caccia di neri.”

“Sì, perdonatemi…anche i neri lo facevano, si piumavano e rivestivano i loro cavalli con la pelle dei bianchi che catturavano, quando si usciva si cacciava e si era cacciati, era un gioco spietato che coinvolgeva tutta la fascia di confine. Il mio uccello era giovane ma aveva l’istinto della specie che lo guidava e ci sentivamo sicuri. Lo scopo della caccia era catturare le prede vive, quando uscivamo  eravamo seguiti da una banda di aiutanti ognuno con un compito preciso che si tenevano a distanza nascosti tra l’erba della savana ed accorrevano al bisogno.

C’erano anche suonatori di corno che mantenevano i collegamenti con i tam tam e tenevano informata tutta la tribù sull’andamento della caccia. Il mio padrone precedente era un capo, l’uccello ne aveva preso il posto ed era tra i personaggi più seguiti.”

 

“Era l’alba, il sole non era ancora sorto quando, ad una ventina di chilometri dal confine nemico, tutte le zecche iniziarono a pungere eccitate dando l’allarme. Ad un centinaio di metri da noi, su uno spiazzo sabbioso, c’era un piccolo nero con un palo piantato nella pancia che lo teneva inchiodato al terreno. Gemeva, aveva il pene ed era tutto insanguinato. Il cavallo si impuntò per scattare ma l’uccello gli diede un colpo col becco e lo fece inginocchiare dal dolore poi fischiò per avvertire gli altri di stare fermi.”

“Cos’è questo becco?”

“Era un’arma ricavata lavorando il becco dei pterodattili, serviva a trafiggere, a tagliare e come clava, solo gli uccelli tigre lo adoperavano.”

“Bene, eravate tutti fermi, e poi?”

“C’erano altri due uccelli a cavallo che avevano seguito le nostre tracce ma erano allocchi,  si buttarono sul piccolo seguiti da una ventina di iene del loro seguito ed iniziarono a litigare  per contendersi la preda. Quando tutti furono coinvolti nella rissa dalla sabbia saltarono fuori un centinaio di neri che li accerchiarono ingaggiando subito battaglia. A quel punto l’uccello fischiò facendo accorrere la banda in soccorso mentre io suonavo il corno a tutto fiato.

I nostri si gettarono sui neri e da ogni parte ne arrivavano in aiuto richiamati dal corno, in pochi minuti eravamo il doppio di loro, i neri mollarono la preda ed iniziarono a fuggire verso la loro giungla inseguiti dai nostri.

L’uccello fischiò richiamando la banda e lasciò l’inseguimento agli altri poi entrò nello spiazzo deserto dove giacevano l’esca ancora intatta e numerosi corpi di neri e bianchi agonizzanti, si gettò sul piccolo per salassarlo mentre gli altri sopraggiunti si mangiarono il resto. Una prima colazione a cui partecipai,  perdonatemi…a quei tempi era così.”

“Non abbiamo nulla da perdonarti,  puoi evitare di ripeterlo.”

“Perdonatemi, sa, l’abitudine…sono le zecche, perdonatemi…”

Continuavamo a camminare, il vento aveva cambiato odore e sullo sfondo un puntino di luce stava prendendo forma.

Esopo proseguì: “Finito il pasto eravamo sazi e ci sentivamo carichi di energia. L’uccello montò sulle spalle del cavallo per osservare l’inseguimento, i nostri erano arrivati a un chilometro dalla loro giungla  senza averli raggiunti, dagli alberi uscirono i loro in soccorso  ed i nostri furono costretti a fare dietro front e tornare indietro  inseguiti da un miliaio di neri.

L’uccello fece suonare il corno per allarmare il nostro confine, gli squilli si ripeterono a distanza ridondati da altri suonatori e raggiunsero la giungla dove i tam tam   trasmisero la notizia dappertutto.

Quella era la nostra tecnica di caccia, i neri erano feroci quanto noi, leoni contro tigri  ma erano stupidi e ci cascavano sempre. La nostra tribù era stata la prima ad uscire dalle caverne ed era più sviluppata rispetto alle altre.”

Non riuscivamo a capire e lo dicemmo, ci sembrava proprio il contrario.

“Aspetti a dire, i nostri lo sapevano che sarebbero stati inseguiti, era già tutto pronto, erano abili corridori ed il nostro inseguimento era solo una finta per attirarli fuori. In quel momento dalla nostra giungla stavano uscendo in aiuto, i neri continuarono a inseguire e a metà percorso si trovarono contro i soccorsi e più della metà venne presa ed azzoppata. Gli altri si ritirarono fuggendo verso la loro giungla inseguiti da duemila dei nostri, a quel punto saremmo dovuti intervenire noi per tagliargli la strada ma l’uccello sollevò il becco ordinandoci di stare fermi.

Noi non lo sapevamo, si era messo in testa di mangiare la regina dei neri ed aveva un piano, una cosa totalmente istintiva ma  credo che la ragione fosse un’altra, la scacchiera stava per scoppiare e l’uccello tigre ubbidiva a leggi naturali che lo stavano indirizzando agli eventi futuri.”

 

                          La caccia


“I nostri movimenti imitavano le onde del mare. Quando gli uccelli che dirigevano la raccolta delle prede si accorsero che non avevamo fermato l’ondata di ritorno capirono al volo ed iniziarono a volteggiare in frenetiche danze di guerra mentre tutta la savana squillava dei nostri corni ed i tam tam nella giungla richiamavano a raccolta.

Suonavano anche i corni dei neri. I confini di ambo le parti fervevano di vita, durante l’inseguimento molti di loro uscivano dalla savana per attaccare i nostri ai lati e si accendevano mischie mentre dalla giungla ne stavano uscendo a migliaia per andargli incontro. I nostri arrivarono in vista della nuova ondata che stava arrivando e fecero dietro front trascinandosi dietro un esercito di neri urlanti e dalla loro giungla ne continuavano ad uscire senza interruzione richiamati dai tam tam. Stava avvenendo un esodo.

L’inseguimento era frenetico, molti dei nostri in coda venivano atterrati ed azzoppati,  l’uccello tigre guardava sulle spalle  del cavallo, quando vide che il frutto era maturo mi fece suonare il corno per dare il segnale della ritirata.”

“Non vi fermaste per aiutarli?”

“No, erano solo duemila ma quelli che arrivavano erano decine di miliaia, l’ondata era diretta alla nostra costa e non si sarebbe più fermata.”

“Un comportamento straordinario, qual’ era la molla che spingeva queste ondate di inseguitori?”

“A quei tempi…faccia conto oggi di vedere un sacco con dentro un milione di sterline che fugge, non gli correrebbe dietro?”

Il paragone ci fece sorridere, gli staccammo una zecca dalla spalla e la mangiammo.  “Questi animaletti sono davvero squisiti, conciliano i sogni.”

“Perdonatemi…sono sogni.”

Ne staccammo un‘altra dalla schiena e chiedemmo: “Facendo in quel modo l’uccello tigre non mise in pericolo la tribù?”

“Il pericolo c’era ma la nostra giungla era progettata apposta per catturare e annientare tali ondate.”

“Bene, suonasti il corno per ordinare la ritirata, e poi?”

Raggiungemmo il gruppo che si ritirava, l’uccello si fece consegnare un prigioniero, un grosso nero dominante con il pene a cui avevano reciso i tendini d’Achille,  gli strappò il ciuffo di penne dal capo,  lo fece spogliare e crocifiggere e con quello trasportato da una squadra di quattro mummie mulo ce ne andammo per i fatti nostri lasciando la battaglia al suo destino.”

“Comportamento esemplare. Nessuno protestò?”

“L’uccello tigre lo avrebbe ucciso col becco. Lui era la volontà della tribù ed in ogni caso per quel che stava avvenendo erano già tutti programmati in modo naturale e posso assicurarle che sbavavano dalla brama di sangue.”

“Questo fatto del pene è importante?”

“Per l’evoluzione della specie sì, solo gli uccelli lo avevano, i migliori, i più astuti, i più forti, tutti gli altri venivano castrati dalla selezione da piccoli, perdonatemi, io sono castrato, tutti i porta zecche lo sono. Il castrato e l’infibulata erano una caratteristica della nostra specie e rappresentavano la fascia statistica più numerosa della tribù suddivisa in classi ognuna impiegata in attività di servizio particolari. La caccia ne determinava il comportamento perché se si catturavano molte prede si mangiava altrimenti si veniva mangiati, era la nostra natura, molti castrati venivano allevati come maiali, vitelli, conigli, topi ed in tempi di magra si sacrificavano. I crocefissi portati da quattro muli venivano chiamati quattrini, erano la chiave per poter entrare nella propria casa.  Le posso assicurare che a quei tempi un capo nero con un grosso pene era il più bel regalo che si potesse fare ad una femmina bianca. L’uccello sapeva quel che faceva.”

 

                            Il ghetto


“Era pomeriggio inoltrato quando rientrammo nella giungla. La fascia di confine ardeva d’eccitazione, i tam tam suonavano tutti e l’eco dei rullii ridondava ripetuto dai suonatori all’interno.

Le giungle allargandosi dal centro avevano una forma circolare ed erano divise in spicchi ognuno caratterizzato da tipi di albero diverso come diverse erano le tipologie degli abitanti che li seminavano e le attività che si svolgevano all’interno. Nel nostro settore predominava il castagno, l’olmo ed il ciliegio. Sull’olmo veniva fatta crescere una pianta rampicante che produceva frutti simili all’uva che alcuni di noi facevano fermentare.

Le vie di comunicazione principali erano tutte sotterranee, sul terreno sotto gli alberi era tracciata una fitta rete di sentieri battuti poco praticata perché piena di insidie e molti si spostavano per via aerea utilizzando funi e ponti.

L’uccello voleva rincasare prima di notte ed aveva fretta, evitammo le sotterranee che a quell’ora erano congestionate e prendemmo una scorciatoia sotto gli alberi facendoci largo tra la folla che assiepava il confine. Lui stava sulle spalle del cavallo ma ogni tanto si afferrava ad una liana e percorreva un tratto  tra i rami e poi ci aspettava più avanti per rimontare. Le mummie mulo ci seguivano arrancando sotto il peso del nero crocefisso.”

A quelle parole ci sentimmo sollevare e ci vedemmo volare nella foresta con una scia di piume infocate che ci seguiva, frenammo l’intenzione di mangiare un’altra zecca per chiedere: “Uccello, cavallo, non avevano un nome?”

“Non esistevano nomi, non parlavamo, comunicavamo attraverso suoni gutturali, fischi, rutti, scoregge e gesti, a esprimersi era l’intenzione dell’uccello e noi ci adattavamo come se fossimo un unico corpo e ci comportavamo di conseguenza.”

“Doveva essere uno spettacolo, non trovaste ostacoli sulla strada?”

“Perdonatemi…al nostro passaggio si nascondevano tutti perché l’uccello tigre era temuto da prede e predatori.

“Doveva essere proprio una giungla.”

“Si, perdonatemi, non c’era posto per i deboli, il minimo cedimento fisico si finiva in pentola, lo stomaco dei vivi era la nostra tomba. Ovunque erano appostate squadre di pantere che controllavano i movimenti dei passanti e se vedevano qualcuno sfasciato o zoppicante  lo prendevano e portavano al macello.

I sentieri della giungla erano battuti per lo più dai cercatori, castrati delle classi più basse che raccoglievano qualsiasi cosa commestibile si trovasse sul terreno, insetti, lumache, topi, radici, funghi che barattavano con le pelli per fasciarsi e servivano all’alimentazione delle fosse dei cuccioli e dei ghetti.”

“Ghetti, avevate dei ghetti?”

“Perdonatemi…sì, certe zone della giungla erano cintate e si rinchiudevano i prigionieri che venivano azzoppati per essere mangiati poco per volta. Il piatto era destinato ai dominanti ed i raccoglitori li dovevano nutrire ma non potevano toccarli.”

“Questa cosa l’aveva teorizzata Scoto Allegrus accennando l’origine degli ebrei e dei nobili, come vivevano?”

“Perché parlare di loro?”

“Rispondi, condurre questo filo è affare nostro.”

“Perdonatemi…il rabbino lo aveva detto, è un pennato, fai attenzione, ha un becco tagliente e dove tocca tocca…non vivevano, erano cibo in attesa di essere mangiato e non potevano fasciarsi, erano gli unici abitanti della giungla ad essere completamente nudi e si vergognavano moltissimo. Rappresentavano il grasso della tribù e venivano sacrificati nei periodi di magra per lo spopolamento delle giungle vicine dovuto alla caccia che facevamo.

Nei periodi di abbondanza diventavano numerosi e poteva capitare che il loro mantenimento togliesse il nutrimento necessario ai raccoglitori. In quei casi avvenivano delle rivolte, i ghetti erano assaliti ed i prigionieri fatti a pezzi e divorati. Gli uccelli di queste rivolte non si curavano, spesso erano loro ad accenderle perché non avevano più spazio dove mettere le nuove prede o, come si direbbe oggi, rinnovare le scorte che si sono muffite.”

L’intuizione muoveva il discorso, sentivamo il significato fuori dallo spazio e dal tempo rinchiuso in un microcosmo organico all’interno di un un automa che poteva essere programmato e modificato a piacere alterando tale ordine. La giungla specchiava la società degli uomini ma a sognare era la parola ed invitammo Esopo a continuare.”

“Perdonatemi…per me è penoso parlare di loro.”

“Eri uno del ghetto?”

“Forse… è passato tanto tempo. Non tutti venivano mangiati, alcuni erano conservati per particolarità culinarie, avevano l’orina di un odore ricercato o ascessi enormi con pus particolarmente gustosi,  le femmine erano usate da monta e all’entrata dei carnefici mostravano i piccoli in cambio della vita,  si odiavano tutti perché il bisogno li rendeva  ladri e nudi com’erano non avevano posti dove nascondere la loro roba, per rendersi poco appetitosi si scorticavano e facevano ricrescere una pelle dura e squamosa che ricoprivano di fango e la loro la arrotolavano e sotterravano insieme alle pelli ed alle ossa dei piccoli gonzi della nostra  tribù che riuscivano ad attirare nei ghetti e che sbranavano di nascosto perché a loro era vietato mangiare carne. I raccoglitori lo sapevano,  li spaventavano  e loro correvano a dissotterrarli e li consegnavano, c’era un deposito apposta per raccogliere i loro rottami.  Era un mondo a sé, i tendini dei calcagni recisi gli impedivano di camminare correttamente e se provavano a scappare erano subito riconosciuti e macellati. Molti erano neri ma c’erano anche bianchi di altre tribù e dei nostri scartati dalla selezione, tra loro stavano separati ed avevano formato un piccolo mondo che imitava noi e le giungle che ci circondavano anche questo diviso tra chiari e scuri.

Perdonatemi…è passato tanto tempo e le ombre della sera stavano insinuando la loro lingua tra le gambe della giungla quando arrivammo al nido dell’uccello.”

“Queste non sono parole tue.”

“Perdonatemi…licenza poetica.”

 

La tribù aveva un grande villaggio centrale e diversi piccoli sparpagliati nella giungla che venivano costruiti sugli alberi. Gli uccelli tigre erano i capi indiscussi dei piccoli ed al centro dominava il più forte di loro, l’uccello arlecchino.

Per diventare arlecchino i tigre dovevano rivestirsi con i ciuffi di penne catturati di tutte le tribù che ci circondavano, quando il piumaggio era completo potevano sfidare il capo e se vincevano ne prendevano il posto altrimenti venivano sbranati.

La vita media di un uccello che diventava capo era un anno, qualcuno riusciva a resistere anche due, molti duravano un solo giorno.

I nidi erano accuditi dalle femmine che come fattrici di cibo costituivano un mondo a sé,  i maschi si sostituivano ai perdenti e ne ereditavano i diritti. Il ricambio era continuo e garantiva freschezza e vitalità a tutta la collettività. La tribù era una fontana che zampillava sangue per nutrire la vita che la alimentava.

Il mio uccello aveva conquistato il villaggio del tigre che aveva vinto, esso era costituito da una piramide tronca di terra alta una cinquantina di metri collegata ai percorsi sotterranei che copriva una grande fossa scavata che tra le altre cose conteneva  la conceria ed il deposito delle merci che venivano scambiate con la giungla in cambio delle pelli conciate. La piramide era abitata dai conciatori che rappresentavano la classe più alta tra i castrati e sulle pareti erano disposte le celle per le femmine gravide. Nel villaggio molti alberi erano rivestiti da interiora piene di carne vomitata, merda e vermi fissate  alla cima, intrecciate con ossa e fatte srotolare verso il basso. Avevano tutti forma piramidale ed in base ai rivestimenti ed allo spessore delle salsicce si stabiliva il valore degli occupanti. Esse erano abitate da femmine minori ed infibulate, mummie di servizio e da uccelli cacciatori,  suonatori di tam tam e seminatori di bosco e potevano ospitare chiunque avesse quattrini da spendere. In cima ad una piccola  altura sovrastante il villaggio, simile ad un castello, c’era l’albero dove l’uccello tigre aveva il nido in un gruppo di  castagni immensi foderati di budella intrecciate ad ossa a cui erano aggiunte le piume degli uccelli che  le femmine del villaggio allevavano o catturavano.

Nel momento in cui entrammo le salsicce erano tutte scostate e molte teste si affacciavano per ascoltare le notizie portate dai tam tam. Improvvisamente dal confine scoppiò un boato di urla che fece tremare la giungla. L’ondata di invasori era arrivata.

Nel villaggio c’erano solo femmine e tutte sbavano dalle finestre gridando all’abbondanza di carne che si stava massacrando. Passammo ai lati per salire direttamente al castello.

Per poter entrare l’uccello doveva  chiedere il permesso, c’era un cerimoniale molto elaborato. Prima di tutto bisognava assicurarsi che la femmina dominante non avesse fame e poi bisognava presentarsi puliti e profumati.

L’uccello fischiò, da un albero scese una piccola  femmina che subito si chinò per pisciare dentro una ciotola che portava legata al collo e  con l’orina che era particolarmente odorosa iniziò a massaggiarlo. Intanto ero andato avanti e suonai il corno alla porta.

Da un’apertura del tronco che era in parte cavo uscirono due femmine foderate di lardo piumato, erano le portinaie, in quel momento eccitate dai rumori della battaglia. Feci capire loro che era arrivato il padrone e mostrai il nero crocifisso.

A quei tempi non esisteva il sesso, tutte le femmine quando erano incinte si spostavano nelle piramidi e ne uscivano solo dopo aver partorito. Il sesso vero e proprio era esclusivamente alimentare ed avveniva per via orale.

Le femmine annusarono il negro e strillarono compiaciute facendo accorrere la dominante.

Le mummie avevano fissato la croce ad un albero e dopo aver spellato accuratamente il quattrino si erano allontanate portandosi via le pelli arrotolate.

Il negro era sveglio e aveva gli occhi terrorizzati, cercava di liberarsi dando strattoni alle corde che lo legavano con l’unico risultato di farsi sanguinare polsi e caviglie.

La femmina lo annusò, ne soppesò il pene con le mani, lo leccò e iniziò a fregarlo con la bocca fino a farlo eiaculare, inghiottì lo sperma, annuì di piacere poi con un morso gli tranciò la cappella e si mise a succhiare il sangue che fuoriusciva copioso mentre le altre due leccavano  quello  che colava sui piedi.

Rimase attaccata al pene per una buona mezzora incurante di tutto, a tratti smetteva, attorcigliava il pene per bloccare il flusso, rimaneva qualche secondo a riprendere fiato e ricominciava.

Quando fu sazia si alzò e lasciò alle sue dame quel che restava  da  svuotare.

Dall’albero scesero una decina di giovani femmine del seguito della dominante e dopo qualche minuto del nero restavano solo le ossa e le budella che venivano srotolate per essere esposte e appese. A quel punto l’uccello si fece avanti.”

Il racconto seguiva una traccia di sangue, le sue parole descrivevano le usanze preumane ma l’intuizione spostava tali abitudini nel microcosmo intestinale e lo trasmetteva ai vari enzimi adibiti alla digestione del cibo.

 Staccammo una zecca e la mangiammo. Esopo proseguì: “L’uccello e la femmina si accucciarono uno di fronte all’altra, lei lo tastava annusandolo e gli toccava il pene protetto nella custodia d’osso. L’uccello mi fece sedere in mezzo e spiluccandomi le zecche iniziarono a tubare ed a schioccare le labbra.

Il clamore al confine era cessato ed i tam tam avevano ripreso a battere incessanti. L’uccello si alzò per ascoltarli, emise un grido di gioia, si arrampicò su una fune che pendeva e salì in cima all’albero dove aveva il suo giaciglio.  

La battaglia non era finita, metà degli assalitori erano riusciti a fuggire e stavano tornando nella loro giungla inseguiti dai nostri, l’ondata di ritorno che avrebbe fatto seguito sarebbe stata colossale, per l’indomani era attesa una giornata di fuoco.

La notte era diventata fonda, nel cielo le stelle fiammeggiavano incendiando l’universo che si specchiava in noi.