La
tribù dei pennati.
Nota dell’uccellino.
“Il nominalismo nega la forma: se il nome è forma la forma è
nome e se è nome non è forma, quest’ultimo non è forma è applicato ad una forma
che è il nome nell’enunciato iniziale,
il nome diventato forma nega la forma e se non è forma è nome. La logica del
nominalismo è: “il nome è forma.”
La parola dio è diventata
corpo, la forma della religione.
Se il nome è forma la causa è effetto e se è effetto non è
causa, il bene è male e se è male non è bene, dio causa della creazione nega il
peccato originale effetto creato e prende forma di bene e l’effetto prende la
causa di male.
Il nome male è forma a priori, un giudizio scritto, una
legge dogmatica che nega la causa di male in dio dandogli corpo, esistenza,
mentalità, comportamento, ecc.
Ad appiccicare i giudizi scritti agli effetti invertendoli
in causa di male sono gli uomini di penna.
Es: se il nome è forma il singolare è plurale e l’uno è
tutto, l’uno è tutto o l’uno è tre del
dogma trinitario è nominalismo.
Giordano Bruno era un uomo di penna, un filosofo il cui
strumento di logica era “uno è tutto” ed
arse sul rogo perché sosteneva il sillogismo che dà forma a dio ed alle
religioni, un martire creato ad hoc,
chissà chi bruciò al suo posto.
Bene o male non è, se la ragione nega la religione ed i
preti chi è contro di loro è ragione, la
ragione applicata è solo nominale, un nome a priori senza forma che viene
calato in un personaggio mito, un totem che dà forma alla tribù di credenti.”
Il fuoco sul sarcofago arde jocondo, robustoso e forte, la
mummia all’interno ha stoppino da vendere, plasmarlo è domarlo, bastone e
carota, amore e odio, carezze e frustate, baci e morsi rabbiosi, le fiamme bruciano
l’ardore che le alimenta e l’idea prende forma per ardere, annullarsi e riprendere forma.
Alla finestra il deserto appare fasciato da rotoli distesi
di carta stampata, notizie a cui si sovrappongono notizie a cui si
sovrappongono notizie, qua e là ardono i roghi della pubblicità: “Guardate che
bell’uccello, questo sì che piscia lungo!”
Fuochi fatui che alimentano il ricordo di morti mantenendoli
vivi per la morte dei vivi, il tempo giace sepolto sotto la mummia di carta
stampata e risorge a ghiribizzo degli interessi di potere, sopra le ondate di
parole scritte lo schifo galleggia impassibile col suo carico genetico, una
poltiglia putrescente dove sguazzano larve di tutte le specie, la stessa vita
che anima i vermi dei cadaveri scorre nelle ali delle aquile tra le nuvole,
delle mosche sulle merde o delle tigri che sbranano. Ai polli poco importa se a
mangiarli sono aquile o avvoltoi, quello che importa è il nucleo riproduttivo
della specie che lo schifo trasporta.
Il climax che porta alle stelle sale e scende tra uccelli in
gabbia che si credono male e mummie ben fasciate che si nominano bene perché
non sono quel male, solo l’uccellino resiste
cinguettando sulla scala a piacere dal do al si.
Fuoco fuoco delle mie brame, fuoco fuochino fuochetto
fuocone…
La storia riprende dall’inizio.
L’uomo zecca.
Ogni cosa tornava alla polvere prima della creazione. Ora, mentre scriviamo, vediamo chiaramente il succedersi dei fatti
come un percorso logico, eravamo fuori dallo spazio all’interno di un attimo presente che scorreva all’indietro
nelle probabilità del tempo verso l’origine.
La grotta era tornata alla forma iniziale, le ossa si
sbriciolavano impalpabili sotto i nostri piedi, ci soffermammo a guardare delle
aperture nelle pareti che emanavano una pallida luce, all’interno erano
accatastati uno contro l’altro mucchi di corpi rattrappiti dai millenni avvolti
da spesse ragnatele che li fasciavano come mummie, i fossili erano giganteschi
ed ognuno stringeva tra le braccia incartapecorite una clava di pietra. Erano
disposti su tutto il perimetro alla base, ce n’erano miliaia, davano
l’impressione di un esercito di morti posti a guardia della grotta. Qualcuno ci fissava dalle
orbite vuote ma fortunatamente nessuno si mosse.
Raggiungemmo l’ingresso principale, una grande botola
circolare che si apriva su una galleria che scendeva in diagonale. La statua di
Ixo era scomparsa, al suo posto trovammo una vecchia conoscenza e la cosa non
ci sorprese.
Seduto nella polvere con la schiena appoggiata alla parete
c’era il rabbino, vestiva una tonaca nera lacera e consunta e teneva il viso
nascosto sotto il cappuccio lasciando scoperto solo l’occhio che lampeggiava dal centro della fronte. Tra le mani
stringeva un lungo bastone da cammino, nero e bitorzoluto ed aveva un rotolo
della torah in pergamena legato a tracolla.
Rimanemmo qualche minuto in silenzio a fissarci, sentivamo
il suo respiro rantolare dietro ai brividi di gelo che uscivano dalla galleria.
“Ti stavo aspettando.” disse.
“Sapevamo di te, abbiamo letto il messaggio.”
“Ti è piaciuto lo spettacolo?”
“Sì”
Il rabbino si fregò la pancia: “Tutto nelle nostre budella,
chi l’avrebbe mai detto?”
Ruttò, rise sguaiatamente e continuò: “Siamo alla fine della
strada, l’ultimo tratto lo faremo insieme, tu sai cosa voglio?”
“Lo immaginiamo.”
“Tu sei intelligente, molto, capisci e non temi nulla anzi,
vedi la trappola e ti getti dentro incurante di qualsiasi pericolo, come ti
ammiro. Millenni fa noi due facemmo un patto, tu firmasti col sangue, è giunto il momento di rispettarlo.”
“Ti sbagli, questa volta non c’è stato rinnovo, Ixo è a Giza
ancora viva.”
“E’ quello che credi.”
“Ricordiamo benissimo, fuggimmo per non spargere quel
sangue.”
“Ti sbagli, tu l’hai uccisa e fatta a pezzi nel solito modo
coprendo il tuo nome col suo sangue.”
“Tu menti, vuoi confonderci, impossibile!”
“Guarda.” disse ridendo indicando un cumulo di carne ed ossa
sanguinolenti poco distante.”
Rimanemmo impietriti dallo spettacolo. Sopra il cumulo la
testa di Ixo sorrideva con la bocca squarciata che grondava sangue.
“Tu l’hai uccisa!” Esclamammo.
“Eri in preda alle furie, fuori di te, l’hai fatta a pezzi
con l’ascia e poi sei fuggito ed hai dimenticato. Era il tuo destino. Alì ha
raccontato tutto, a Giza ti stanno cercando per linciarti, non hai più scampo,
il tuo nome sarà maledetto in tutto il mondo, i tuoi lavori, i tuoi libri, le
tue ricerche, tutto perduto.”
Cercammo di mantenere la calma per non trascendere nell’odio
che ci ispirava. Dicemmo: “Tu menti! Una messinscena! Chi l’ha portata qui?”
Il rabbino riprese a ridere sguaiatamente e la testa di Ixo
sul cumulo strillò, gelandoci le ossa: “Brutto cagone ammuffito, ci sono venuta
con le mie gambe!”
Le sue membra si stavano ricomponendo, in breve fu
nuovamente in piedi viva e più bella che mai e subito dopo si trasformò in
statua. Con uno sfrigolio scivolò sulla sabbia scomparendo velocemente nella
galleria.
“Questo è un sogno, un incubo!” gridammo.
“Chi credevi di essere?” continuò il rabbino. La sua voce
era diventata tonante e rimbombava nella grotta echeggiando da ogni parte. “Hai
dimenticato Omer? Non ti sei chiesto perché la statua è intatta quando lui
scrive di averla distrutta?”
“Vuoi dire che noi, tu, Ixo e tutto quanto viviamo nel sogno
di Omer?”
“Un sogno, che altro? Anche Omer era un sogno e prima di lui
e ancora prima, dall’inizio un lungo giro che stiamo percorrendo da secoli,
millenni! Ricordi? Quando firmasti ti promisi l’eterno, così fu la prima volta,
sei pronto ad entrare?”
Eravamo confusi ma la ragione non ci abbandonava: “Se è come
dici Omer si sta risvegliando, in questo caso noi svaniremmo nel nulla, siamo
un sogno, di che eterno vai parlando?”
In quel momento notammo un’ ombra coperta dalla sabbia
muoversi e starnutire.
Un essere informe, piccolo gobbo e rattrappito si alzò
continuando a starnutire e con un balzo andò ad accovacciarsi ai piedi del
rabbino.
Aveva il corpo dalla testa ai piedi completamente ricoperto
di zecche gonfie di sangue. Le palpebre, appesantite dai parassiti, si aprivano
appena per far trasparire occhi vitrei e terrorizzati. Tra le mani stringeva un
corno da caccia.
“Calmati Esopo.” disse il rabbino accarezzandolo con la
punta del bastone, “Il signore non ti toccherà, lui ha schifo di te.”
Detto questo staccò con due dita una grossa zecca sulla
testa del gobbo, ne spiccicò il capo con i denti e la inghiottì masticandola e
assaporandone il gusto ad occhi chiusi.
La metamorfosi di Ixo ci aveva raggelati, il pensiero si era
bloccato, nei pochi giorni di convivenza a Giza ci aveva acceso di una passione
incontrollata, un fuoco che avvampava
furioso crescendo di ora in ora, cercavamo di combatterlo con la ragione ma
inutilmente, le nostre membra lottavano
con la vecchiaia che le intorpidiva, in noi si era risvegliato qualcosa a cui
non sapevamo dare un nome che nel pensiero l’amava, la prendeva, la penetrava
col corpo di un giovane, il corpo di un altro. In quel momento la passione era
spenta, non ragionavamo ma la disillusione ci aveva aperto gli occhi e ci
rendevamo conto che quello che vivevamo poteva essere solo ed esclusivamente il
sogno di un morto che era trasmesso di generazione in generazione nella mente
dei vivi attraverso il ricordo stampato sul libro.
Il rabbino succhiava e masticava la zecca con espressione
estasiata, intanto il suo occhio ci fissava spiando ogni nostra reazione,
rimanemmo impassibili controllando il disgusto che ci assaliva, la situazione
era paradossale ma avevamo intuito il suo gioco e guardavamo avanti.
Il prete deglutì
facendo rimbombare la caverna. Disse: “Un boccone veramente squisito, sano,
nutriente e vivo! Le zecche possiedono sostanze che impediscono al sangue di
coagulare e lo mantengono fresco per giorni.” Colpì il gobbo con il bastone
facendolo allontanare di qualche passo e continuò: “Esopo è il compagno ideale
nei lunghi viaggi, non occorre portare provviste, pensa a tutto lui. Se vuoi
serviti, ce n’è a volontà.”
Riconoscemmo nello sventurato il servo che a Giza aveva
cucinato il capretto, su di lui le zecche formavano un involucro impenetrabile
solcato da canali dove i parassiti marciavano fitti spostandosi da un punto
all’altro.
Guardava a terra con occhi spenti e rassegnati emanando una
pena struggente.
Evitammo di farci contagiare e dicemmo: “La cosa non ci
impressiona e nonostante siamo digiuni da due giorni non ci mette appetito.
Torniamo a parlare del nostro patto.”
“C’è poco da dire, biascicò il prete leccandosi il sangue
sulle labbra. “Siamo arrivati al traguardo, si tratta solo di muoversi per
l’ultimo tratto.”
“Tu la fai facile ma a noi non lo sembra affatto, siamo in
un sogno, il sognatore si sta svegliando e quando si sveglierà chi di noi
troverà l’Eterno?”
Il volto del prete era tornato in ombra e solo il suo occhio
parlava: “Che domanda, hai paura? Noi naturalmente.”
“Vuoi dire tu, la statua di Ixo e le zecche di Esopo, credi
che staremmo ad un simile gioco? Tu stai
mentendo, in qualche modo sei riuscito a trascinarci nel sogno ed ora dici di
essere giunto alla fine, in tal caso che bisogno avresti di noi? Per quale
motivo aiutasti Omer ed Efesto indicando loro la via da seguire
nell’interpretazione del testo? Un’intenzione trattenuta, una fiamma soffocata
dal sangue di Ixo che rivive nel sogno incatenata al senso di colpa, perché
proprio noi e non un altro?”
“Tu sei intelligente, ” replicò il rabbino abbassando
l’occhio. “dovresti capirlo da solo.”
“Infatti ma la verità appare talmente paradossale da non
essere credibile.”
“Eppure è semplice.” Col bastone fece avvicinare il servo,
staccò una grossa zecca che sporgeva da un orecchio e ce la porse: “Tieni,
assaggia, prova.”
Il parassita era gonfio di sangue bluastro ed agitava le
zampette cercando di liberarsi.
Voltammo la testa ed il prete rise, inghiottì la zecca
facendola scoppiare con i denti e domandò: “Stomaco delicato?”
Ci facemmo forza per non vomitare, intanto l’intuizione si
stava rafforzando e dicemmo: “Il sognatore è morto da millenni, il sogno è stato
tramandato nella specie umana, nella mentalità e si è trasmesso ad oggi
incurante dell’evoluzione che gli uomini nel frattempo hanno compiuto. Tu vuoi
risvegliare questo cimitero!” esclamammo spaziando la mano sul tappeto d’ossa
che ricopriva la grotta.!”
“Bene!” ribattè il prete, “Ricominceremo dall’inizio.”
“Intendi sempre tu, la statua e le zecche e noi imprigionati
nella mente a ragionare per te.”
“Questa è un’ipotesi.”
“Forse. Chi sei tu veramente? Indovino, prete egiziano,
rabbino, la parte che hai recitato è sempre stata contraria alla ragione ed ora
cerchi di disgustarci, di farti odiare per accrescere questa separazione. Tu
indicasti ad Omer di cercare il bene nel male, ad Efesto la chiave per
comprendere l’alfabeto figurato, a noi la logica della maledizione di Eva ed
ora ci tenti all’ultima fatica, perché?
La risposta può essere solo questa, noi siamo l’intenzione
superstite del sognatore tramandata mentre la donna negata viene fatta a pezzi
dando forma a te ed alle zecche che ti nutrono,
il sangue della specie di cui
trasciniamo il ricordo. Questo sogno è infame, la specie preumana
terminò con l’adozione del linguaggio e la parola che venne introdotta nella
bestia si addormentò per sognare questa storia,
quella parola tu la vorresti trasformare in una zecca da succhiare in
eterno. Ti sono utile perché da solo non esisti, sei un effetto che il giudizio
della ragione crea, un golem, un automa meccanico e le tue azioni sono naturali
e prevedibili. Ora stai cercando di distruggerci per mantenere la forma che ti
sfugge, è quello che credi, solo una credenza, in realtà tu ubbidisci alla
spontaneità del sognatore ed il male che ci ispiri è solo una copertura, una
nostra copertura, noi due siamo la stessa cosa, tu non esisti fuori di noi.”
Il rabbino disse: “Un’ipotesi come un’altra, anche tu credi
di essere bene perché per la ragione sono male,
quale bene? A Giza ti cercano per linciarti ed ora puoi solo continuare
su questa strada o morire per sempre, come preferisci.”
“Bene o male non ha importanza, comunque siamo già morti
miliaia di anni fa ed un morto che muore rinasce alla vita, noi ti vediamo
proiettato nel sogno e quando ci sveglieremo sarà quel che sarà.”
Eravamo euforici, fuori di noi, l’impeto ci trascinava, ci
chinammo su Esopo e staccammo una zecca con i denti, la masticammo e
inghiottimmo impassibili come statue. Il gusto era dolciastro nient’affatto
sgradevole.
Il servo ci guardò con occhi riconoscenti.
Il rabbino era scomparso.
Dalla galleria proveniva una corrente d’aria gelida che sfociava
nella grotta sibilando tra le asperità delle pareti.
Guardammo Esopo che ricambiò lo sguardo ad occhi chini.
“Perdonatemi.” disse, “adesso sono suo, faccia di me quello che vuole.”
I parassiti stringevano le sue labbra e la voce usciva
stentata, balbettante, soffiata.
Emanava una pena da rattrappire la pelle.
“Forza, tirati su.” dicemmo per confortarlo, “Il rabbino non esiste più e tu appartieni
solo a te stesso, usciti di qui troveremo un modo per curarti.”
La voce del servo cambiò, divenne tonante come quella del
prete: “Non mi trattare così, non sono affatto scemo. Il rabbino non è
scomparso, va e viene, è radicato, non ti libererai di lui facilmente!”
Con un singhiozzo la voce cambiò e tornò umile:
“Perdonatemi, che ho detto? A volte parlo e non so cosa dico, sono le zecche,
loro, è colpa loro, perdonatemi…lei non mi considera parte del tutto?”
La domanda ci sorprese e ci fece riflettere. “Chi sei
veramente?” gli chiedemmo.
“Perdonatemi…lei mi vede così e pensa che…perdonatemi…io
sono così, sono sempre stato così, non voglio cambiare, là fuori sbranano e
loro mi proteggono…” accarezzò le zecche con amore e continuò: “una volta, è
passato tanto tempo, se sapesse…”
“Che cosa facevi con il rabbino?”
“Lui non è cattivo, non pensi male, è qui, è là, è dappertutto,
adesso è così, non c’è ma potrebbe esserci, lui mi ha detto: “ti porto da un
nuovo padrone, raccontagli tutto.” io non volevo, piangevo,
supplicavo, sa…quando mi attacco a qualcuno per me…aveva previsto le sue
parole, è vero e allora eccomi qui, ora sono suo, perdonatemi…”
Mentiva istruito dal prete o era sincero? La rivelazione
allargava la visuale sul campo ma poteva essere una trappola e preferimmo
procedere con cautela senza dar peso e giudizio alle parole che diceva, se era
parte del tutto era un’ aberrazione della natura, quale uomo potrebbe
sopportare simile peso? Oppure eravamo noi limitati da non saper comprendere la
totalità dell’universale? Trappola o no non potevamo tornare indietro,
l’intuizione ci consigliava di approfittare dell’occasione, ormai la zecca l’avevamo mangiata, il limite
che separa il bene dal male si era spostato facendo reclinare la bilancia della
nostra ragione verso il non essere del sogno. La meta era la Sfinge, l’enigma
del risveglio, l’eterna giovinezza.
La penombra che oscurava la grotta ed i suoi fantasmi era
opprimente, eravamo attanagliati dalla fame e non avevamo altra scelta che
procedere.
Esopo disse: “Lo vedo, lei non sa decidersi perché non ha
ancora capito come facevano a piumarsi.”
“E’ vero!” esclamammo sorpresi. “Tu ci leggi nella mente.”
“Ebbene, perdonatemi, che importa?”
“E’ fondamentale! Quel piumaggio doveva essere ben saldo se
era necessario arderlo per spogliarsi e non abbiamo visto nessuna penna nel
lazzaretto.”
“Infatti si piumavano fuori, perdonatemi, io lo so, c’ero,
vedevo, a quei tempi, poi…se vuole le racconto tutto, ma andiamocene da qui, fa
così freddo e tutti quei morti quando un tempo erano vivi, sa…potrebbero
tornare, hanno denti come i lupi e solo
la vista del sangue…lo dico per lei, non è neppure fasciato…perdonatemi,
intanto se vuole…lo vedo che ha fame, approfitti, loro…sono talmente tante che
più se ne toglie e più ne crescono, a me fa piacere, sa…perdonatemi.”
“Tu cosa mangerai?”
“Io?…oh, per me va bene tutto, mi arrangio, se vuole caghi
per terra e poi non guardi, sa, noi siamo così…”
Esopo ci affascinava ma non volevamo ammetterlo e ci
incuriosiva, stringemmo la cinghia e dicemmo: “Andiamo.”
La galleria scendeva per un centinaio di metri poi
proseguiva in piano in un lunghissimo corridoio di cui non si vedeva la fine
rischiarato su ambo i lati da incavi nelle pareti posti a cinque metri uno dall’altro dove
erano stipati corpi incartapecoriti di fossili preumani mummificati dalle ragnatele che emanavano fosforescenze
luminose.
Il vento soffiava ad intermittenza strusciandosi alle pareti
segno che da qualche parte doveva esserci un uscita.
Esopo accennando alle mummie disse: “Non le guardi, perdonatemi…
loro sono morti ma non si sa mai, è un‘altra storia, adesso…perdonatemi.”
Soffiò dal corno una nota senza suono ed iniziò a
raccontare:
“A quei tempi non parlavamo ancora ma ci capivamo benissimo.
La nostra razza è particolare, ci si incontra poi le zecche si attaccano e si
diventa così, perdonatemi…questa è una
storia che ha poca importanza, di solito
stiamo sui bordi dei sentieri, nascosti tra gli alberi e quando vediamo uno che
ci piace usciamo fuori e ci offriamo. Solo agli uccelli però, perdonatemi…gli
altri non ci interessano e li evitiamo.
Eravamo in tre, io, l’uccello che servivo ed il cavallo,
eravamo giovani e stavamo nella savana, ai confini del nostro territorio, a
caccia di neri. Perdonatemi, allora non sapevamo che era male e ci divertivamo
moltissimo.”
L’uccello, il cavallo e la zecca.
“Per poter capire bisogna prima che le descriva l’ambiente
dove vivevamo.
La specie preumana occupava un continente vastissimo
circondato dall’oceano ed era divisa in tribù di bianchi e di neri, come su una
scacchiera.
Ogni tribù aveva un suo centro particolare dove veniva
innalzata la piramide principale che custodiva il nucleo di riproduzione e
tutto intorno si sviluppava una giungla intricatissima che cresceva a sua
immagine coprendola e proteggendola dall’esterno.
Questa crescita non era illimitata, ciclicamente gli alberi
diventavano vecchi e per colpa dei fulmini o dell’autocombustione si
incendiavano distruggendo tutto eccetto i nuclei centrali che erano allo
scoperto e da lì si ricominciava, noi e gli alberi, a crescere e questo
avveniva quando i territori delle varie tribù venivano a contatto. Una
scacchiera con una giungla che cresceva in ogni casella.
A quei tempi eravamo in una fase di espansione prossima alla
fine, lo spazio che ci separava dalle tribù confinanti in certi punti si era
ristretto ad una centinaio di chilometri e dalla cima degli alberi al confine
si potevano vedere fumare le piramidi dei nostri vicini.
Queste giungle erano delle ragnatele acustiche e servivano
tra le altre cose a catturare le invasioni dall’esterno che cercavano di
occupare nuovi spazi.
Alcuni di noi erano adibiti a sentinelle, si rivestivano
completamente di cortecce e foglie per mimetizzarsi con l’ambiente e quando un
estraneo cercava di entrare davano l’allarme con i tam tam, in base al numero degli assalitori potevano
far accorrere tutta la tribù.
Questo reticolato sonoro coincideva con i percorsi delle
gallerie sotterranee che erano tutte collegate al centro ed avevano sbocchi
secondari intorno ai quali venivano costruite piramidi di terra.”
“Una sintesi dettagliata” dicemmo. “oggi le città hanno
sostituito la giungla ma non ci sembra che le cose siano cambiate di molto.”
“Perdonatemi, questo non è affar mio, il rabbino ha detto
“raccontagli tutto”…non interrompa altrimenti mi confondo.”
“Ora sei al nostro servizio, siamo noi a dare gli ordini.”
“Come vuole, perdonatemi…intanto…lo vedo che ha fame, si
serva, non faccia complimenti.”
Le zecche sul suo corpo vibravano gonfie di sangue,
sembravano chicchi d’uva passa, il nostro stomaco brontolava e l’intuizione ci
consigliava di non essere schizzinosi. Ne staccammo una dalla nuca e la
inghiottimmo senza pensare.
La galleria proseguiva diritta, il pavimento felpava i
nostri passi rendendoli silenziosi come un volo d’uccello, quell’insolito cibo
ci aveva caricato di energia rischiarandoci i sensi e la mente, le piramidi, la
giungla, i tam tam, le immagini si aprivano e noi entravamo nei personaggi e
vivevamo con loro.
Esopo continuò: “Ecco, ha visto? Così va meglio. Si serva
ogni volta che vuole, una manciata basta per un giorno ed io sono contento.
Adesso mi lasci raccontare, sa, quei tempi era tutta
un’altra cosa, quando catturavamo una banda di invasori era una grande festa,
perdonatemi, noi non sapevamo che era male, c’era da abbuffarsi, quelli che avanzavano li azzoppavamo per non
farli scappare e li mangiavamo poco per volta.
La fascia di confine della giungla era divisa in settori
ognuno capeggiato da un uccello tigre ed era
popolata da ogni sorta di individui organizzati alla sua difesa in modo
completamente naturale.
L’uccello che servivo, non pensi male, a quei tempi… è
meglio che le dica tutto.
I cuccioli dopo lo svezzamento venivano raccolti all’interno
di fosse che li isolavano dalla giungla e lì ogni generazione si organizzava in
una gerarchia che continuava per tutta la
vita. Gli uccelli stavano al vertice, essi erano, come si direbbe oggi,
delle specie di cantastorie, sapevano organizzare e dirigere il comportamento
della tribù con spettacoli di guerra e di caccia che coinvolgevano e
divertivano tutti, almeno quelli che non venivano mangiati.
Anche tra loro c’era una gerarchia, al vertice stavano gli
uccelli tigre, perdonatemi…erano una cosa…una ferocia…una voracità…ma a quei
tempi nessuno sapeva che era male, il comportamento era spontaneo,
assolutamente naturale.
L’uccello che servivo era tigre, mi aveva preso insieme al
cavallo ad un suo rivale più vecchio e molto più forte senza usare le mani, lo
fece cadere in una trappola offrendosi come esca.
Ogni uccello deve avere un cavallo, sono tipi grandi e
grossi ma molto stupidi che si possono addomesticare facilmente e se gli si dà
da mangiare diventano fedeli e inseparabili e deve avere uno come me, un porta
zecche ben fornito.
Noi fungiamo da messaggeri, se la caccia va male compensiamo
al cibo mancante inoltre abbiamo un fiuto eccezionale ed i miei animaletti sono
dotati di organi sensoriali che sentono l’avvicinarsi di sangue caldo alla
distanza di chilometri e sanno avvertirci e dirigerci sulle prede con
precisione infallibile. Siamo buoni anche come merce di scambio, poi le
racconterò.
Nella giungla la copertura è importante, ovunque sono nascoste
insidie e se non si protegge il proprio corpo si finisce sbranati. Quando c’è
da fronteggiare un’invasione la tribù si unisce compatta ma in tempo di pace si
salvi chi può.
Il cavallo era fasciato con le pelli dei neri che il padrone
precedente aveva catturato, io avevo le zecche e lui era imbudellato con un
ciuffo di penne di cigno pinzato sul capo. Eravamo entrati nella savana in un
punto ristretto fuori dai confini di nostra competenza, gli alberi erano radi e
procedevamo nascosti tra l’erba avvicinandoci al territorio dei neri. Nelle
zone di ristrettezza gli sconfinamenti erano frequenti ed era facile trovare
prede. Le mie zecche erano agitate e segnalavano pericoli dappertutto.
C’erano anche piccoli dinosauri che vagavano in cerca di
cibo ma quelli stavano alla larga.
La notizia era sorprendente: “Un momento, tu corri, aspetta,
vuoi dire che vivevate ai tempi dei dinosauri?”
“Perdonatemi, adesso perderò il filo, ebbene sì, ma erano
piccoli, raramente se ne vedevano di grandi e solo dove lo spazio lo permetteva. Crescendo le nostre giungle inglobavano ogni
forma animale estinguendole in breve tempo. Allo scoperto eravamo deboli
rispetto a loro ma dentro le foreste non avevano scampo.”
“I dinosauri si sono estinti da milioni di anni, come è
possibile?”
“Perdonatemi… adesso penserà…non erano neppure rettili, il
rabbino mi ha detto: “Ti porto da un pennato, uno studioso di talento…lei crede
a quel che dicono i libri? ma allora…comunque questa cosa non è importante.”
“Certo che lo è. Ammettiamo che i libri mentano sulle date e
sulla specie, resta il fatto che si sono trovati fossili di dimensioni
enormi, carnivori, il tirannosauro rex ad esempio, come potevate
convivere?”
“Dà troppa importanza alle dimensioni. Erano bestioni
stupidi che iniziarono ad estinguersi quando la nostra specie uscì
dall’incubatoio sotterraneo. Scavavamo delle grandi buche con pali appuntiti in
fondo e li facevamo cadere dentro.
Perdonatemi, le posso assicurare che in fatto di ferocia nessun animale
può essere paragonato all’uccello tigre,
il budello che lo ricopriva era morbido ed aderente ed era ricavato dal pene
dei tirannosauri. Adesso non ricordo più quello che dicevo, dove eravamo
rimasti?”
“Eravate usciti dai confini a caccia di neri.”
“Sì, perdonatemi…anche i neri lo facevano, si piumavano e
rivestivano i loro cavalli con la pelle dei bianchi che catturavano, quando si
usciva si cacciava e si era cacciati, era un gioco spietato che coinvolgeva
tutta la fascia di confine. Il mio uccello era giovane ma aveva l’istinto della
specie che lo guidava e ci sentivamo sicuri. Lo scopo della caccia era
catturare le prede vive, quando uscivamo
eravamo seguiti da una banda di aiutanti ognuno con un compito preciso
che si tenevano a distanza nascosti tra l’erba della savana ed accorrevano al
bisogno.
C’erano anche suonatori di corno che mantenevano i
collegamenti con i tam tam e tenevano informata tutta la tribù sull’andamento
della caccia. Il mio padrone precedente era un capo, l’uccello ne aveva preso
il posto ed era tra i personaggi più seguiti.”
“Era l’alba, il sole non era ancora sorto quando, ad una
ventina di chilometri dal confine nemico, tutte le zecche iniziarono a pungere
eccitate dando l’allarme. Ad un centinaio di metri da noi, su uno spiazzo
sabbioso, c’era un piccolo nero con un palo piantato nella pancia che lo teneva
inchiodato al terreno. Gemeva, aveva il pene ed era tutto insanguinato. Il
cavallo si impuntò per scattare ma l’uccello gli diede un colpo col becco e lo
fece inginocchiare dal dolore poi fischiò per avvertire gli altri di stare
fermi.”
“Cos’è questo becco?”
“Era un’arma ricavata lavorando il becco dei pterodattili,
serviva a trafiggere, a tagliare e come clava, solo gli uccelli tigre lo
adoperavano.”
“Bene, eravate tutti fermi, e poi?”
“C’erano altri due uccelli a cavallo che avevano seguito le
nostre tracce ma erano allocchi, si
buttarono sul piccolo seguiti da una ventina di iene del loro seguito ed
iniziarono a litigare per contendersi la
preda. Quando tutti furono coinvolti nella rissa dalla sabbia saltarono fuori
un centinaio di neri che li accerchiarono ingaggiando subito battaglia. A quel
punto l’uccello fischiò facendo accorrere la banda in soccorso mentre io
suonavo il corno a tutto fiato.
I nostri si gettarono sui neri e da ogni parte ne arrivavano
in aiuto richiamati dal corno, in pochi minuti eravamo il doppio di loro, i
neri mollarono la preda ed iniziarono a fuggire verso la loro giungla inseguiti
dai nostri.
L’uccello fischiò richiamando la banda e lasciò l’inseguimento
agli altri poi entrò nello spiazzo deserto dove giacevano l’esca ancora intatta
e numerosi corpi di neri e bianchi agonizzanti, si gettò sul piccolo per
salassarlo mentre gli altri sopraggiunti si mangiarono il resto. Una prima
colazione a cui partecipai,
perdonatemi…a quei tempi era così.”
“Non abbiamo nulla da perdonarti, puoi evitare di ripeterlo.”
“Perdonatemi, sa, l’abitudine…sono le zecche, perdonatemi…”
Continuavamo a camminare, il vento aveva cambiato odore e
sullo sfondo un puntino di luce stava prendendo forma.
Esopo proseguì: “Finito il pasto eravamo sazi e ci sentivamo
carichi di energia. L’uccello montò sulle spalle del cavallo per osservare
l’inseguimento, i nostri erano arrivati a un chilometro dalla loro giungla senza averli raggiunti, dagli alberi uscirono
i loro in soccorso ed i nostri furono
costretti a fare dietro front e tornare indietro inseguiti da un miliaio di neri.
L’uccello fece suonare il corno per allarmare il nostro
confine, gli squilli si ripeterono a distanza ridondati da altri suonatori e
raggiunsero la giungla dove i tam tam
trasmisero la notizia dappertutto.
Quella era la nostra tecnica di caccia, i neri erano feroci
quanto noi, leoni contro tigri ma erano
stupidi e ci cascavano sempre. La nostra tribù era stata la prima ad uscire dalle
caverne ed era più sviluppata rispetto alle altre.”
Non riuscivamo a capire e lo dicemmo, ci sembrava proprio il
contrario.
“Aspetti a dire, i nostri lo sapevano che sarebbero stati
inseguiti, era già tutto pronto, erano abili corridori ed il nostro inseguimento
era solo una finta per attirarli fuori. In quel momento dalla nostra giungla
stavano uscendo in aiuto, i neri continuarono a inseguire e a metà percorso si
trovarono contro i soccorsi e più della metà venne presa ed azzoppata. Gli
altri si ritirarono fuggendo verso la loro giungla inseguiti da duemila dei
nostri, a quel punto saremmo dovuti intervenire noi per tagliargli la strada ma
l’uccello sollevò il becco ordinandoci di stare fermi.
Noi non lo sapevamo, si era messo in testa di mangiare la
regina dei neri ed aveva un piano, una cosa totalmente istintiva ma credo che la ragione fosse un’altra, la
scacchiera stava per scoppiare e l’uccello tigre ubbidiva a leggi naturali che
lo stavano indirizzando agli eventi futuri.”
La caccia
“I nostri movimenti imitavano le onde del mare. Quando gli
uccelli che dirigevano la raccolta delle prede si accorsero che non avevamo
fermato l’ondata di ritorno capirono al volo ed iniziarono a volteggiare in
frenetiche danze di guerra mentre tutta la savana squillava dei nostri corni ed
i tam tam nella giungla richiamavano a raccolta.
Suonavano anche i corni dei neri. I confini di ambo le parti
fervevano di vita, durante l’inseguimento molti di loro uscivano dalla savana
per attaccare i nostri ai lati e si accendevano mischie mentre dalla giungla ne
stavano uscendo a migliaia per andargli incontro. I nostri arrivarono in vista
della nuova ondata che stava arrivando e fecero dietro front trascinandosi
dietro un esercito di neri urlanti e dalla loro giungla ne continuavano ad
uscire senza interruzione richiamati dai tam tam. Stava avvenendo un esodo.
L’inseguimento era frenetico, molti dei nostri in coda
venivano atterrati ed azzoppati,
l’uccello tigre guardava sulle spalle
del cavallo, quando vide che il frutto era maturo mi fece suonare il
corno per dare il segnale della ritirata.”
“Non vi fermaste per aiutarli?”
“No, erano solo duemila ma quelli che arrivavano erano
decine di miliaia, l’ondata era diretta alla nostra costa e non si sarebbe più
fermata.”
“Un comportamento straordinario, qual’ era la molla che
spingeva queste ondate di inseguitori?”
“A quei tempi…faccia conto oggi di vedere un sacco con
dentro un milione di sterline che fugge, non gli correrebbe dietro?”
Il paragone ci fece sorridere, gli staccammo una zecca dalla
spalla e la mangiammo. “Questi
animaletti sono davvero squisiti, conciliano i sogni.”
“Perdonatemi…sono sogni.”
Ne staccammo un‘altra dalla schiena e chiedemmo: “Facendo in
quel modo l’uccello tigre non mise in pericolo la tribù?”
“Il pericolo c’era ma la nostra giungla era progettata
apposta per catturare e annientare tali ondate.”
“Bene, suonasti il corno per ordinare la ritirata, e poi?”
Raggiungemmo il gruppo che si ritirava, l’uccello si fece
consegnare un prigioniero, un grosso nero dominante con il pene a cui avevano
reciso i tendini d’Achille, gli strappò
il ciuffo di penne dal capo, lo fece
spogliare e crocifiggere e con quello trasportato da una squadra di quattro
mummie mulo ce ne andammo per i fatti nostri lasciando la battaglia al suo
destino.”
“Comportamento esemplare. Nessuno protestò?”
“L’uccello tigre lo avrebbe ucciso col becco. Lui era la
volontà della tribù ed in ogni caso per quel che stava avvenendo erano già
tutti programmati in modo naturale e posso assicurarle che sbavavano dalla
brama di sangue.”
“Questo fatto del pene è importante?”
“Per l’evoluzione della specie sì, solo gli uccelli lo
avevano, i migliori, i più astuti, i più forti, tutti gli altri venivano
castrati dalla selezione da piccoli, perdonatemi, io sono castrato, tutti i
porta zecche lo sono. Il castrato e l’infibulata erano una caratteristica della
nostra specie e rappresentavano la fascia statistica più numerosa della tribù
suddivisa in classi ognuna impiegata in attività di servizio particolari. La
caccia ne determinava il comportamento perché se si catturavano molte prede si
mangiava altrimenti si veniva mangiati, era la nostra natura, molti castrati
venivano allevati come maiali, vitelli, conigli, topi ed in tempi di magra si
sacrificavano. I crocefissi portati da quattro muli venivano chiamati
quattrini, erano la chiave per poter entrare nella propria casa. Le posso assicurare che a quei tempi un capo
nero con un grosso pene era il più bel regalo che si potesse fare ad una
femmina bianca. L’uccello sapeva quel che faceva.”
Il ghetto
“Era pomeriggio inoltrato quando rientrammo nella giungla.
La fascia di confine ardeva d’eccitazione, i tam tam suonavano tutti e l’eco
dei rullii ridondava ripetuto dai suonatori all’interno.
Le giungle allargandosi dal centro avevano una forma
circolare ed erano divise in spicchi ognuno caratterizzato da tipi di albero
diverso come diverse erano le tipologie degli abitanti che li seminavano e le
attività che si svolgevano all’interno. Nel nostro settore predominava il
castagno, l’olmo ed il ciliegio. Sull’olmo veniva fatta crescere una pianta
rampicante che produceva frutti simili all’uva che alcuni di noi facevano
fermentare.
Le vie di comunicazione principali erano tutte sotterranee,
sul terreno sotto gli alberi era tracciata una fitta rete di sentieri battuti
poco praticata perché piena di insidie e molti si spostavano per via aerea
utilizzando funi e ponti.
L’uccello voleva rincasare prima di notte ed aveva fretta,
evitammo le sotterranee che a quell’ora erano congestionate e prendemmo una
scorciatoia sotto gli alberi facendoci largo tra la folla che assiepava il
confine. Lui stava sulle spalle del cavallo ma ogni tanto si afferrava ad una
liana e percorreva un tratto tra i rami
e poi ci aspettava più avanti per rimontare. Le mummie mulo ci seguivano
arrancando sotto il peso del nero crocefisso.”
A quelle parole ci sentimmo sollevare e ci vedemmo volare
nella foresta con una scia di piume infocate che ci seguiva, frenammo
l’intenzione di mangiare un’altra zecca per chiedere: “Uccello, cavallo, non
avevano un nome?”
“Non esistevano nomi, non parlavamo, comunicavamo attraverso
suoni gutturali, fischi, rutti, scoregge e gesti, a esprimersi era l’intenzione
dell’uccello e noi ci adattavamo come se fossimo un unico corpo e ci
comportavamo di conseguenza.”
“Doveva essere uno spettacolo, non trovaste ostacoli sulla
strada?”
“Perdonatemi…al nostro passaggio si nascondevano tutti
perché l’uccello tigre era temuto da prede e predatori.
“Doveva essere proprio una giungla.”
“Si, perdonatemi, non c’era posto per i deboli, il minimo
cedimento fisico si finiva in pentola, lo stomaco dei vivi era la nostra tomba.
Ovunque erano appostate squadre di pantere che controllavano i movimenti dei
passanti e se vedevano qualcuno sfasciato o zoppicante lo prendevano e portavano al macello.
I sentieri della giungla erano battuti per lo più dai
cercatori, castrati delle classi più basse che raccoglievano qualsiasi cosa
commestibile si trovasse sul terreno, insetti, lumache, topi, radici, funghi
che barattavano con le pelli per fasciarsi e servivano all’alimentazione delle
fosse dei cuccioli e dei ghetti.”
“Ghetti, avevate dei ghetti?”
“Perdonatemi…sì, certe zone della giungla erano cintate e si
rinchiudevano i prigionieri che venivano azzoppati per essere mangiati poco per
volta. Il piatto era destinato ai dominanti ed i raccoglitori li dovevano
nutrire ma non potevano toccarli.”
“Questa cosa l’aveva teorizzata Scoto Allegrus accennando
l’origine degli ebrei e dei nobili, come vivevano?”
“Perché parlare di loro?”
“Rispondi, condurre questo filo è affare nostro.”
“Perdonatemi…il rabbino lo aveva detto, è un pennato, fai
attenzione, ha un becco tagliente e dove tocca tocca…non vivevano, erano cibo
in attesa di essere mangiato e non potevano fasciarsi, erano gli unici abitanti
della giungla ad essere completamente nudi e si vergognavano moltissimo. Rappresentavano
il grasso della tribù e venivano sacrificati nei periodi di magra per lo
spopolamento delle giungle vicine dovuto alla caccia che facevamo.
Nei periodi di abbondanza diventavano numerosi e poteva
capitare che il loro mantenimento togliesse il nutrimento necessario ai
raccoglitori. In quei casi avvenivano delle rivolte, i ghetti erano assaliti ed
i prigionieri fatti a pezzi e divorati. Gli uccelli di queste rivolte non si
curavano, spesso erano loro ad accenderle perché non avevano più spazio dove
mettere le nuove prede o, come si direbbe oggi, rinnovare le scorte che si sono
muffite.”
L’intuizione muoveva il discorso, sentivamo il significato
fuori dallo spazio e dal tempo rinchiuso in un microcosmo organico all’interno
di un un automa che poteva essere programmato e modificato a piacere alterando
tale ordine. La giungla specchiava la società degli uomini ma a sognare era la
parola ed invitammo Esopo a continuare.”
“Perdonatemi…per me è penoso parlare di loro.”
“Eri uno del ghetto?”
“Forse… è passato tanto tempo. Non tutti venivano mangiati,
alcuni erano conservati per particolarità culinarie, avevano l’orina di un
odore ricercato o ascessi enormi con pus particolarmente gustosi, le femmine erano usate da monta e all’entrata
dei carnefici mostravano i piccoli in cambio della vita, si odiavano tutti perché il bisogno li
rendeva ladri e nudi com’erano non
avevano posti dove nascondere la loro roba, per rendersi poco appetitosi si
scorticavano e facevano ricrescere una pelle dura e squamosa che ricoprivano di
fango e la loro la arrotolavano e sotterravano insieme alle pelli ed alle ossa
dei piccoli gonzi della nostra tribù che
riuscivano ad attirare nei ghetti e che sbranavano di nascosto perché a loro
era vietato mangiare carne. I raccoglitori lo sapevano, li spaventavano e loro correvano a dissotterrarli e li consegnavano,
c’era un deposito apposta per raccogliere i loro rottami. Era un mondo a sé, i tendini dei calcagni
recisi gli impedivano di camminare correttamente e se provavano a scappare
erano subito riconosciuti e macellati. Molti erano neri ma c’erano anche
bianchi di altre tribù e dei nostri scartati dalla selezione, tra loro stavano
separati ed avevano formato un piccolo mondo che imitava noi e le giungle che
ci circondavano anche questo diviso tra chiari e scuri.
Perdonatemi…è passato tanto tempo e le ombre della sera
stavano insinuando la loro lingua tra le gambe della giungla quando arrivammo
al nido dell’uccello.”
“Queste non sono parole tue.”
“Perdonatemi…licenza poetica.”
La tribù aveva un grande villaggio centrale e diversi
piccoli sparpagliati nella giungla che venivano costruiti sugli alberi. Gli
uccelli tigre erano i capi indiscussi dei piccoli ed al centro dominava il più
forte di loro, l’uccello arlecchino.
Per diventare arlecchino i tigre dovevano rivestirsi con i
ciuffi di penne catturati di tutte le tribù che ci circondavano, quando il
piumaggio era completo potevano sfidare il capo e se vincevano ne prendevano il
posto altrimenti venivano sbranati.
La vita media di un uccello che diventava capo era un anno,
qualcuno riusciva a resistere anche due, molti duravano un solo giorno.
I nidi erano accuditi dalle femmine che come fattrici di
cibo costituivano un mondo a sé, i
maschi si sostituivano ai perdenti e ne ereditavano i diritti. Il ricambio era
continuo e garantiva freschezza e vitalità a tutta la collettività. La tribù
era una fontana che zampillava sangue per nutrire la vita che la alimentava.
Il mio uccello aveva conquistato il villaggio del tigre che
aveva vinto, esso era costituito da una piramide tronca di terra alta una
cinquantina di metri collegata ai percorsi sotterranei che copriva una grande
fossa scavata che tra le altre cose conteneva
la conceria ed il deposito delle merci che venivano scambiate con la
giungla in cambio delle pelli conciate. La piramide era abitata dai conciatori
che rappresentavano la classe più alta tra i castrati e sulle pareti erano
disposte le celle per le femmine gravide. Nel villaggio molti alberi erano
rivestiti da interiora piene di carne vomitata, merda e vermi fissate alla cima, intrecciate con ossa e fatte
srotolare verso il basso. Avevano tutti forma piramidale ed in base ai
rivestimenti ed allo spessore delle salsicce si stabiliva il valore degli
occupanti. Esse erano abitate da femmine minori ed infibulate, mummie di
servizio e da uccelli cacciatori,
suonatori di tam tam e seminatori di bosco e potevano ospitare chiunque
avesse quattrini da spendere. In cima ad una piccola altura sovrastante il villaggio, simile ad un
castello, c’era l’albero dove l’uccello tigre aveva il nido in un gruppo
di castagni immensi foderati di budella
intrecciate ad ossa a cui erano aggiunte le piume degli uccelli che le femmine del villaggio allevavano o
catturavano.
Nel momento in cui entrammo le salsicce erano tutte scostate
e molte teste si affacciavano per ascoltare le notizie portate dai tam tam.
Improvvisamente dal confine scoppiò un boato di urla che fece tremare la
giungla. L’ondata di invasori era arrivata.
Nel villaggio
c’erano solo femmine e tutte sbavano dalle finestre gridando all’abbondanza di
carne che si stava massacrando. Passammo ai lati per salire direttamente al
castello.
Per poter entrare l’uccello doveva chiedere il permesso, c’era un cerimoniale
molto elaborato. Prima di tutto bisognava assicurarsi che la femmina dominante
non avesse fame e poi bisognava presentarsi puliti e profumati.
L’uccello fischiò, da un albero scese una piccola femmina che subito si chinò per pisciare
dentro una ciotola che portava legata al collo e con l’orina che era particolarmente odorosa
iniziò a massaggiarlo. Intanto ero andato avanti e suonai il corno alla porta.
Da un’apertura del tronco che era in parte cavo uscirono due
femmine foderate di lardo piumato, erano le portinaie, in quel momento eccitate
dai rumori della battaglia. Feci capire loro che era arrivato il padrone e
mostrai il nero crocifisso.
A quei tempi non esisteva il sesso, tutte le femmine quando
erano incinte si spostavano nelle piramidi e ne uscivano solo dopo aver partorito.
Il sesso vero e proprio era esclusivamente alimentare ed avveniva per via
orale.
Le femmine annusarono il negro e strillarono compiaciute
facendo accorrere la dominante.
Le mummie avevano fissato la croce ad un albero e dopo aver
spellato accuratamente il quattrino si erano allontanate portandosi via le
pelli arrotolate.
Il negro era sveglio e aveva gli occhi terrorizzati, cercava
di liberarsi dando strattoni alle corde che lo legavano con l’unico risultato
di farsi sanguinare polsi e caviglie.
La femmina lo annusò, ne soppesò il pene con le mani, lo
leccò e iniziò a fregarlo con la bocca fino a farlo eiaculare, inghiottì lo
sperma, annuì di piacere poi con un morso gli tranciò la cappella e si mise a
succhiare il sangue che fuoriusciva copioso mentre le altre due leccavano quello
che colava sui piedi.
Rimase attaccata al pene per una buona mezzora incurante di
tutto, a tratti smetteva, attorcigliava il pene per bloccare il flusso,
rimaneva qualche secondo a riprendere fiato e ricominciava.
Quando fu sazia si alzò e lasciò alle sue dame quel che
restava da svuotare.
Dall’albero scesero una decina di giovani femmine del
seguito della dominante e dopo qualche minuto del nero restavano solo le ossa
e le budella che venivano srotolate per essere esposte e appese. A quel punto
l’uccello si fece avanti.”
Il racconto seguiva una traccia di sangue, le sue parole
descrivevano le usanze preumane ma l’intuizione spostava tali abitudini nel
microcosmo intestinale e lo trasmetteva ai vari enzimi adibiti alla digestione
del cibo.
Staccammo una zecca e
la mangiammo. Esopo proseguì: “L’uccello e la femmina si accucciarono uno di
fronte all’altra, lei lo tastava annusandolo e gli toccava il pene protetto
nella custodia d’osso. L’uccello mi fece sedere in mezzo e spiluccandomi le
zecche iniziarono a tubare ed a schioccare le labbra.
Il clamore al confine era cessato ed i tam tam avevano
ripreso a battere incessanti. L’uccello si alzò per ascoltarli, emise un grido
di gioia, si arrampicò su una fune che pendeva e salì in cima all’albero dove
aveva il suo giaciglio.
La battaglia non era finita, metà degli assalitori erano
riusciti a fuggire e stavano tornando nella loro giungla inseguiti dai nostri,
l’ondata di ritorno che avrebbe fatto seguito sarebbe stata colossale, per
l’indomani era attesa una giornata di fuoco.
La notte era diventata fonda, nel cielo le stelle
fiammeggiavano incendiando l’universo che si specchiava in noi.