Capitolo 4. L'uccello di fuoco.




           L’uccello di fuoco

 

 

                     Nota dell’uccellino.


 

Il nome non è forma, il bene non è male, la forma del bene è il male, la parola non è il corpo umano, la parola è bene il corpo umano è male, io non è tu, se io sono buono tu sei cattivo, il totem non è la tribù, dio non è i credenti, se il dio totem è bene la tribù dei credenti è male, se dio giudica il male bene è male ed i credenti sono bene, se i credenti giudicano il  male bene sono bene e dio è male, se si giudica a priori  la ragione male il totem e la tribù sono bene.

La ragione non è il totem e la tribù, la forma della ragione è il totem e la tribù.

Il paradosso è evidente, se la ragione è nome la forma è un nome ed una forma, il nome ragione si trasferisce sul nome totem e diventa doppio, un super nome bene o male giudicato a priori.

Il nome ragione trasferito è nome, una parola priva di corpo, una parola senza il corpo che la pronunci è una parola impronunciata, un suono non suonato da nessun strumento e se suona non è ragione.

Se il nome è forma la forma è nome e se è nome non è forma,  il bene è male e se il male è bene non è male, la ragione è bestia e se la bestia è ragione non è bestia, alla falsa la vera, il morto è vivo e se è vivo non è morto.

Essere o non essere forma, that’s the question, il giudizio a priori trascende il nome e se non è parola è corpo, il giudizio a priori è tramandato da “chiunque fosse” un morto, un morto non pronuncia parole, il morto è ragione.

L’uccellino e sul ramo qua, apre le ali e vola sul ramo là, ora là e qua e cerca un ramo per volare là.

Nome non è forma, la parola non è il corpo che la pronuncia, il nome è suono ed il suono è energia, la forma è corpo ed il corpo è cibo.

Se il nome è forma la parola è corpo e se è corpo non è parola, l’energia è cibo e se è cibo non è energia, il corpo è diventato energia e la parola  cibo.

La parola di un morto.

Il microcosmo digerente del nucleo di riproduzione della specie si è trasferito nel linguaggio del macrocosmo tribù e suona per bocca di un morto e se il totem morto vive i vivi sono morti.

Il giudizio a priori del morto fascia il corpo di parole non pronunciate, parole scritte vivificate dai morti vivi che le pronunciano, abiti cuciti addosso dalla credenza della tribù, le fasce proteggono e l’uccellino è volato là che ora è qua e cerca un altro ramo per volare là.
 

Stamattina, scherzando col fuoco, ho dipinto un uccellino che cantava posato sulla lingua biforcuta di un serpente che aveva scambiato per un ramo. Il serpente aveva lo sguardo inespressivo, teneva la bocca chiusa e lo ascoltava cantare incantato così gli ho fasciato il corpo come una mummia facendolo sembrare un verme senza che se ne accorgesse. Poi mi sono chiesto: “Che dipingo a fare?” ed ho smesso e subito dopo mi sono risposto: “Lo faccio per il piacere dell’arte.” ed ho ripreso il pennello ma non avevo idee per continuare ed ho lasciato il quadro ad ardere nel fuoco.

Alla finestra i due mondi del non essere vagano nel solito nulla confusi tra i miraggi del deserto, le onde di sabbia si frangono contro lo scoglio sollevando polveroni di niente sotto un sole indifferente, lo schifo galleggia pigro sopra il mare di tempo, nessuna emozione in vista così apro la scatola e svuoto i preservativi nella bacinella.

“Ieri la dea doveva essere in vena.” mi dico osservando i gonfiori densi e lattiginosi dentro i serbatoi. Srotolo il primo sul manganello e gli faccio scorrere l’acqua sopra, lo sperma viene via facilmente disperdendosi nello scolatoio, così quello dopo e l’altro ancora. Al quarto s’apre un fiotto di muco stracchinoso venato di sangue blu verdastro e subito l’aria si ammorba di putredine.

“Ancora lo sborrone!” mi dico, “lo butto?”. Il preservativo è nuovo, di quelli di lusso, decido di tenerlo e vado in magazzino a prendere lo svitol.

 Al ritorno c’è una grossa cagna dal pelo ispido e grigio che gira per il giardino, si china per pisciare un paio di volte poi si avvicina al manganello, annusa lo stracchino e senza por tempo in mezzo inizia a leccarlo di gusto ripulendolo a specchio.

Osservo la scena senza dire nulla. Accarezzo la cagna che lascia fare scodinzolando e ridendo con mezzo metro di lingua ancora impiastricciata dallo sperma fuori. Non ha collare, dal pelo impolverato ed arruffato le costole sporgono di digiuno, dev’essere randagia e decido di tenerla.

Srotolo il preservativo leccato e lo controllo, nessuna traccia di unto, la gomma scorre ruvida e pulita tra le dita, annusandolo non si sente alcun odore.

Ne srotolo un altro sul manganello poi mi allontano di qualche passo e lascio che la cagna faccia il resto. Lei non si fa pregare ed in pochi istanti con  leccate sapienti lo ripulisce completamente. Continuiamo così con i rimanenti, poi li sciacquo ed appendo ad asciugare.

La cagna sembra sazia e si accuccia all’ombra di un fico ansando divertita.

Nell’attesa rientro in casa per rinfrescarmi, nudo davanti allo specchio guardo il segreto che un giorno mi obbligò ad uscire di scena. Oggi, quel giorno, la data l’ho dimenticata , quanti oggi si sono rotolati intorno?

Sfilo il cappuccio d’amianto che avvolge l’uccello, lui si srotola libero respirando e penzolando felice tra le gambe. Gli do qualche colpetto affettuoso, lo accarezzo e l’uccello inizia ad inalberarsi,  le prime fiamme si sprigionano uscendo dalla cappella poi un getto violento di fuoco furioso lo avvolge completamente.  Lo faccio sfogare in un orgasmo di getti ardenti che dirigo fuori dalla finestra quindi con una secchiata d’acqua lo spengo e rinfodero nel cappuccio.

Un simpatico venticello soffia facendo dondolare i preservativi ormai asciutti sul filo. Li arrotolo e pinzo nelle loro buste e m’incammino per portarli alla dea.

 

Nel cielo un aereo sta passando lasciando una lunga scia tra nuvolette sparse, fa caldo, l’aria è umida ed appiccicosa, sulla strada il traffico è pigro, mi diverto a contare le macchine che passano, nel verso un’utilitaria, poi una fila di tre berline con un camion in coda, nel contro due moto rombanti affiancate seguite da due medie cilindrate e da una famigliare, nel verso un grosso tir con dietro una coda di otto auto, una spider veloce nel contro e subito dopo due camion e quattro macchine nel verso, tre cinque sette nove, provo a sostituire i numeri alle lettere corrispettive nell’alfabeto ed il traffico inizia a parlare, parole, frasi rombanti, discorsi.

Un giorno qualsiasi.

Al posto la dea non c’è. Scendo il sentiero per aspettarla ed a ogni passo sento dei grugniti suini ansanti, bassi ed acuti,  a mitraglia,  provenire dalla sua alcova tra i cespugli. Non mi piace fare il guardone ma certe volte la curiosità è irrefrenabile.

Mi avvicino senza far rumore. La dea è stesa carponi col culo sollevato alla pecorina e dietro c’è un tipo grasso, completamente nudo del tutto simile ad un grosso maiale che glielo sta leccando grugnendo dalla foia. L’aria odora di merda, il culo della dea ne è completamente cosparso, anche sulle cosce, sulla schiena, il suino ci passa la lingua, ci strofina il viso, spinge il naso nell’ano e strilla goduto facendo sussultare le fasce di lardo che lo avvolgono.

La dea tiene la testa appoggiata a terra, gli occhi socchiusi e geme compiaciuta assecondando i movimenti del cliente.

Mi allontano e vado a sedermi sotto un albero in attesa che finiscano.

I grugniti diminuiscono fino a cessare, il tempo di rivestirsi ed il tipo esce dai cespugli e risale il sentiero a balzi veloci. Agita le braccia in alto felice come se avesse vinto al totocalcio poi scompare inghiottito dalla strada.

Dopo un po’ esce la dea, nuda, dondolandosi sulle anche. Dalla mia posizione la vedo controsole, il corpo perfetto, sinuoso, femmineo aureolato di luce,  una visione celestiale.

La chiamo, lei mi saluta sorridendo e gesticolando  mi fa cenno di seguirla al suo bagno.

“È contenta” mi dico, “il porco deve aver pagato bene.”

Da un passaggio tra i rovi si accede ad una piccola radura coperta da un pergolato di rami frondosi sotto al quale scorre un ruscello. Contro un albero uno specchio alto due metri e sopra un masso un armadietto.

La dea si accuccia sopra l’acqua corrente e dice: “Cosa fare lì impalato, cosa guardare, mai visto donna nuda? Venire ad aiutare, presto che avere clienti che aspettare.”

“Per chi mi hai preso?” rispondo piccato.

“Cosa dire,  chi ti credere di essere, volere morire di fame? Prendere spugna e sapone là.” indica l’armadietto.

Guardo intorno per accertarmi che nessuno veda e mi dico: “Mah,  tanto… chissenefrega.”

Mentre le passo la spugna insaponata sui lombi dice: “Tu vedere?”

“Un poco.”

“Quello avere soldi che uscire da orecchie, piacere emozioni forti, io capire, pagare come nababbo.”

“Come avete fatto?”

“Lui fare clistere, poi leccare culo e fare uscire merda, più uscire e più pagare, io sapere quando passare e mangiare tanta frutta in quei giorni e non andare gabinetto. Pagato duecento euro questa volta.”

“Potresti darmi un aumento.”

“Cosa dire? Credere io divertire stare tutto giorno a succhiare cazzo? Quello che dare bastare e avanzare.”

“Scherzavo, lo so che hai tutte quelle tombe da pagare.”

Mentre parliamo le passo il dito dentro l’ano fregando bene, ce l’ha morbido ed elastico, ci potrebbe entrare un paracarro,  poi col palmo della mano raccolgo l’acqua e gliela faccio scorrere sulla pelle.

Finita l’operazione la dea si alza, si asciuga e si mette di fronte allo specchio. 

 

                               

                                    Alter ego.

 

“Essere bella?”

“Perché lo chiedi, non lo vedi da te?”

“A me non piacere tanto.”

“Invidio la natura che è stata capace di farti così perfetta, una scultura di carne, hai un non so che…qualcosa di…non c’è parola che possa esprimere quanto sei bella.”

La dea si guarda con occhi corrucciati, accenna delle pose erotiche, si fa delle boccacce, tira fuori la lingua mentre il ruscello scorre gorgogliando allegro ed uno sciame di libellule dorate ci gioca sopra divertendosi in spericolate picchiate tra gli spruzzi ed i mulinelli d’acqua. Tra le foglie qualche timido raggio di sole va e viene senza fretta.

“Tu volere prendere in giro, avere lingua con miele, se essere così bella perché non fare? dare solo dieci euro.”

“Lo sai che non posso.”

“Cosa sapere? Tu o essere impotente o essere finocchio, tirare fuori uccello che vedere.”

“Meglio lasciarlo dov’è.”

“Se vergognare io chiudere occhi e fare senza guardare, conoscere tanti così, ti leccare cappella da fare scoppiare.”

“Pensi sempre al cazzo, possibile? Ci sono tante cose nella vita.”

“Cosa dire? Io avere mestiere, sapere fare bene, avere tocco con uccello, lui essere come bambino, essere timido e piacere giocare, io conoscere tutti capricci, se tu dare solo dieci euro…avere portato preservativi? Altra volta trovato due con buco e quelli non pagare.”

“L’altra volta te li ho regalati!”

“Cosa dire? Non ricordare. Tu volere fregare ma oggi essere allegra e perdonare. Se tu dare dieci euro io ti…”

La dea si interrompe. Allo specchio la sua immagine si sta sfocando ed al suo posto ne  appare un’altra uguale identica ma completamente diversa, tutta avvolta da fasce setose bianche e scintillanti ed aderenti come una seconda pelle eccetto gli occhi che splendono come notti stellate.

La figura allo specchio dice: “Perché lo tratti male? È così simpatico.”

La dea risponde: “Cosa fare tu lì, dovere essere a casa a guardare bambini.”

La figura fa una risata e continua: “Tu sei proprio scema. Quali bambini? Smettila di immaginare di essere una bestia. Io sono ben diversa da quello che ti credi, tutta un’altra cosa.”

La figura esce dallo specchio, accenna un passo di danza, mi viene vicino per pizzicarmi l’uccello dicendo: “Furbacchione…” non so se a lui o a me poi fa una linguaccia alla dea.

Lei ha gli occhi sgranati dall’irritazione: “Tu cosa fare lì? Tornare dentro specchio, a casa avere bisogno di te, cosa dire gli altri?”

“Come sei noiosa, di quali altri stai parlando? A chi vuoi che importi di una puttana negra?”

La dea scoppia a piangere. “Tu non essere negra, tu…”

La figura ride: “Tu, tu…io sono quello che mi pare e piace, sono libera, libera! Sai cosa vuol dire? Libera!”

“Tu dovere tornare dentro specchio, domani venire falegnami a fare stanza bambini, cosa dire se non essere mamma?”

“Che ti importa?”

Le lascio parlare ed intanto mi dico: “Vedere una figura che esce da uno specchio non è cosa di tutti i giorni,  scommetto che la dea ne ha inventata un’ altra per non pagare i preservativi. Come ha fatto?”

Cerco una probabilità logica ma non la trovo, l’apparizione è reale, palpabile, le fasce scintillanti che l’avvolgono la fan sembrare una mummia ma sono così attillate da renderla molto sexy, ogni particolare è risaltato, i capezzoli, le labbra della figa, le curve sinuose del culo, i fianchi, le cosce…gli occhi splendono e ha un odore, un odore che…non ho mai sentito un odore simile, buono o cattivo? Non trovo risposta ed allora mi dico: “Meglio che la sbrano un pezzettino per volta così se è avvelenata  faccio in fretta a sputarla.”

Un clacson suona rabbioso dalla strada. La dea smette di piangere, alza la testa, si asciuga velocemente le lacrime e dice: “Questo essere uno che volere succhiare cazzo, io andare, tu tornare dentro specchio e correre a casa!”

La mummia risponde: “Fossi matta, io sono libera!”

“Adesso non avere tempo, parlare dopo.”

“I preservativi li vuoi?” le chiedo.

“Dove essere?”

“Qui.” glieli porgo.

Lei li prende e si muove per uscire dal bagno.

“I soldi?”

“Adesso non avere spiccioli, pagare domani.”

Senza dir altro si infila nell’apertura tra i rovi e risale correndo il sentiero verso il cliente.
                   

                                l’Opera 


Siamo rimasti soli. La mummia mi guarda con occhi socchiusi facendo scorrere la lingua rossa tra le labbra fasciate, nell’ombra della bocca i canini sono lunghi e scintillano come pietre preziose.

Lei scioglie le riserve: “Com’è venale la tua dea, come fai a sopportarla?”

“Ci sopportiamo, sei la sua immagine, chi è venale?”

“Sono necessarie tante parole tra noi?”

“No.”

“Hai capito chi sono?”

“Sì.”

Lo spazio di un attimo qua e là, l’aria risuona del battito dei tam tam, il ruggito della leonessa,  la terra percossa da zoccoli in fuga, polverone, rimbombo di tuoni, di vulcani in eruzione, pianeti in frantumi, intere galassie esplodono precipitando come neve di fuoco.

La mummia applaude: “Sei bravo con i climax.”

“Potrei fare meglio. L’autore è abituato a dialogare con la propria Opera e non sono sorpreso.”

“Non hai paura di sbagliare?”

“Lui non sbaglia mai. Vieni, avvicinati.”

La tocco. Le fasce che l’avvolgono sono morbide e calde, in trasparenza hanno la filigrana delle banconote da dieci euro e sulla fronte splende una grossa moneta da un dollaro. 

“Sei ridotta male.” le dico.”

“Così come mi vedono.”

Le accarezzo le labbra della vagina, le mordicchio un capezzolo e lei inizia a sbavare ed a vibrare in tutto il corpo.

“Eterno è una parola lunga, ho voglia di saltare il fosso ed aprire le ali,  recita a soggetto, carne viva, sangue, nessun compromesso, puro istinto, la Natura dell’arte e la Natura selvaggia, solo noi, parola e corpo.”

“Potresti morire.”

“Un personaggio stampato in una storia, una credenza,  un’abitudine,  un vizio,  un senso di colpa,  una proiezione della ragione del più forte,  sono un morto,  un morto non può morire.”

“Che cosa vuoi precisamente?”

“Il rogo dell’Oeta,  tutto compreso.

“Allora facciamo pazzie!”

“Buona idea, aggiungerei a talento, usciamo da qui, andiamo a sposarci.”

 La dea non c’è. Appeso allo schienale della seggiola pende il sacchetto di preservativi sborrati da pulire. Lo prendo e sventolandolo ad ogni passo ci incamminiamo lungo la strada.

Le macchine  che passano rallentano per guardare la mummia, molti guidatori tirano fuori la testa dal finestrino e fischiano o accennano gesti ammiccanti verso di lei. L’autista di una lussuosa jeep si attarda in smancerie tamponando un camioncino che stava davanti e la fila di otto macchine che seguiva, distratti dal suo fascino ci finiscono contro in un gran fracasso di cozzi e lamiere infrante accatastandosi uno sopra l’altro, in ambo i sensi scontri, collisioni, frontali violenti, urla, imprecazioni, gemiti.

“Nonostante l’età fai ancora colpo.” le dico.

“Di quale età stai parlando?” chiede lei ancheggiando orgogliosa del disastro.

Sulla strada il traffico è bloccato, in molti punti sono scoppiati incendi che si propagano velocemente, i serbatoi esplodono avvampando e lanciando in aria lamiere arroventate, molti col corpo avvolto dalle fiamme corrono in cerca di scampo, dall’alto iniziano a ronzare elicotteri e da lontano si sentono i soccorsi arrivare a sirene spiegate, su tutti i rumori il rombo dell’incendio domina dilagando sempre più furioso.

“Stai correndo.” dice la mummia.

“Un piccolo anticipo, il nostro sarà il matrimonio dell’universo e lo voglio organizzare a regola d’arte.”

Mentre parliamo le accarezzo il culo solleticandole il buco con le dita.

Lei geme estasiata: “Una grande festa, tutto il mondo ci invidierà, quando cominciamo?”

“Subito!”

Camminando e tubando arriviamo in vista del cantiere dove stanno montando il luna park.  

 

Gli addetti ai lavori si son radunati sul ciglio della strada a guardare l’incendio, il fumo che si alza oscura il cielo, le esplosioni si succedono a catena rimbombando contro gli elicotteri che stanno buttando acqua dall’alto.

Qualcuno ai margini del gruppo vedendo la mummia inizia ad esultare ed a buttare per aria il berretto sgomitando i vicini per avvertirli. Passano pochi secondi e tutti gridano, fischiano, battono le mani e acclamano verso di lei.

“Come fai?” le chiedo.

“Non lo so, forse soffrono del complesso d’Edipo, dev’essere istinto materno latente, credono che sia la loro madre, un vero enigma, ognuno mi vede in modo diverso e aggiunge una pezza statistica alle fasce.”

“Sarà un piacere sfasciarti.” le dico pizzicandole il culo.

“Un piacere reciproco, non vedo l’ora di spennarti.”

“Credi che sia un pollo?”

“Chi lo sa?”

Inter nos: “Tante volte ci siamo accesi d’entusiasmo e siamo bruciati per ritrovarci nudi e ricoperti di cenere, questa incanta ed in mano abbiamo solo delle probabilità,  potrebbe venir fuori una guerra tra tigri e leoni, sarà meglio affilare unghie e denti.”

Lei sbava: “Con fiumi di sangue, rotoli di budella che si srotolano a perdita d’occhio, cataste di morti dove rotolarsi affamati.”

“Leggi nel pensiero?”

“Di quale fascia statistica stai parlando?”

“Sei una psicologa.”

“Conosco la vita, il meccanismo, la rotazione degli ingranaggi e le oscillazioni del bilanciere.”

Tu non dovresti parlare, la tua voce è il vento, la tempesta, l’eco delle valanghe tra i monti, il tuono, il ruggito della leonessa.”

“Credi che sia una Sfinge?”

“E’ una probabilità, gli indizi  concordano.”

“Non sono di pietra.”

“Sei l’emozione, il pathos della vita, la natura selvaggia, la voce della giungla, la musica dell’Opera.”

“Eppure sono qui, stiamo parlando e sbaviamo d’impotenza perché non ci possiamo toccare.”

“Noi siamo calati nella parte, invenzioni letterarie, fuoco vivo scolpito,  plasmato,  leccato,  accarezzato, goduto, un estasi.”

“Chi di noi personifica l’autore?”

“A chi lo domandi?”

Il cantiere è deserto, qua e là ci sono delle giostre montate, altre a metà o appena iniziate, intorno hanno scavato un fosso per far scorrere l’acqua con i baracconi galleggianti, sullo sfondo lo scheletro di una ruota panoramica colossale a dodici braccia con una ruota  panoramica più piccola all’apice di ogni braccio identica e completamente diversa.

La giostra degli specchi ustori è quasi ultimata, manca qualche ritocco ma l’essenziale c’è.  Ci siamo proprio di fronte.

Un mulino a vento col tetto appuntito con in cima un galletto rampante a banderuola. Sul vano della porta è appoggiato un grande specchio ovale incorniciato da serpenti attorcigliati che si mangiano la coda.

“Andiamo?” propone la mummia.

“Siamo già entrati.”

Oltre lo specchio ci sono altri specchi, ognuno riflette lo stesso completamente diverso, le immagini ardono d’entusiasmo e poi si spengono in mucchietti di ceneri fumanti che ricoprono le braci superstiti dalle quali si rigenerano fiammate ardenti che nuovamente si ricovano.

“Quella brace è inestinguibile, per quanta cenere la copra è sempre pronta ad avvampare.” dice la mummia.

“Purché trovi idea da ardere.”

“Cicloni, uragani, tempeste, sono affamata, ti mangerei crudo così come sei.”

“Chi arde non si può mangiare.”

“Chi lo ha detto?”

“Chi si accende d’entusiasmo?”

“La brace inestinguibile.”

“Ti bruceresti le budella.”

“Prima ti soffocherei lentamente godendo dei tuoi spasimi.”

“Dovresti essere acqua e diventare nuvola e poi scioglierti in una pioggia di sangue.”

“Il tuo!”

“Rinascerei da ogni goccia e tornerei a bruciare.”

Sugli specchi è rimasta un’immagine, ognuno la riflette a modo suo ma la sostanza non cambia, è l’apparenza, la superficie, la tensione di una  finissima ragnatela che contiene l’aria o chi per essa l’ha gonfiata: un uccello pennato con biro, penne stilografiche, pennarelli matite, piume di lettere,  parole,  frasi, ragionamenti,  tanti pennini intrisi dentro storie, favole, tutti i colori, le musiche,  le emozioni rappresentati in una universalità di sfumature e cromatismi letterali.

“Bell’uccello!” esclama la mummia, “sarà un piacere spennarlo.”      

          

                     
                     La danza del fuoco.     

 “E’ tutto il contrario di quel che credevo.”

Gli specchi continuano dentro un labirinto tondo su un percorso di raggi dalla circonferenza verso il centro senza mai toccarlo. In mezzo al soffitto il più grande incorniciato in un triangolo di vuoto.

La mummia dice: “Questa è la strada che porta al mio antro, dobbiamo trovare il raggio collegato al centro, l’unico, gli altri sono un effetto ottico.”

“Il tempo reale è un elica che gira, un ventilatore.”

“Esatto.”

Continuo ad accarezzarle il buco del culo che risponde con flebili scorreggine spruzzate di merda liquida, ne è tutto ammorbidito.

“In tal caso ci siamo sopra, dobbiamo aspettare che passi e prenderlo al volo, è oggi.”

“Che giorno è? Qua girano millenni al secondo.”

“Allora spostiamoci, andiamo là.”

Lo specchio ci inghiotte, un lungo scivolo rotolante che ci scarica dentro una vasca circolare piena di inchiostro dorato ribollente di vapori fosforici.

“Di bene in meglio.” mormora la mummia succhiandomi le dita. “Prima di spennarti ti devo lavare, devi essere pulito e profumato.”

Sul bordo ci sono delle anfore, ne prende una e la svuota nella vasca: “Questa è la polvere delle ossa dei tuoi involucri precedenti.”

Con la mano mescola l’inchiostro per far sciogliere la polvere, il liquido diventa chiaro e saponoso. Versa le altre anfore: “Queste sono tutte le tue sborrate, sono state masticate ed insalivate dalle tue cagne per migliaia di anni.

Qui tutte le cagate, le metafore ed i capolavori, il sudore ed il sangue , il pus dei denti cariati,  il succo torchiato dei vermi che ti hanno divorato, gli sputi addosso, la bile,  il fiele,  il marcio della tua saliva, la crema delle placente e degli umori che ti hanno partorito…”

Un lungo elenco srotolato e shakerato nella vasca, l’inchiostro è diventato denso e schiumoso, ribolle, borbotta, gorgoglia sollevando miriadi di bolle che volteggiano e scoppiano caotiche nell’aria mossa dal ventilatore.

La mummia inizia a massaggiarmi versando a piene mani il liquido tra le penne, le piume, i pennini,  le lettere,  le frasi,  le parole,  i sogni,  le illusioni,  le credenze,  le menzogne, accarezza a pettine pelo e contro pelo,  inzuppa la cresta, la coda, le ali, onde rotolanti di merda, scrosci di lacrime, sospiri, diarree, catarri, muchi nasali, pustole schiacciate, scorregge, vomitate d’ubriaco, sangue di tossici, mestruo di vecchie puttane,  tutto meticolosamente conservato e liberato nel bagno finale.

Le sue mani sono abili e capaci, eccitanti, dita di vento, sospiri di montagne,  frusciare di foreste, mormorare di oceani, rotare di pianeti, stelle, galassie, un motore che pompa, una smania di sperma fecondatore.

“Sei quasi pronto.” dice, “usciamo.”

Un barilotto pieno di polvere da sparo con la miccia accesa alla porta, un fremere di sensi accecati dall’ignoto.

“Chi ti credi di essere?”

“Guarda come sono bello, come splendono le penne, abbagliano, chicchiricchiii! se apro le ali faccio vento alle stelle,  la coda una ruota di meraviglie,  chicchiricchiii! Il becco lungo e duro, tagliente, pennino perforante, sbriciola montagne, io sono, talento, poesia, chicchiricchiii!

Dal pennino della testa schizza un getto d’inchiostro arlecchino che ricade sulla foresta che si allarga intorno, battito d’ali, sui rami uccellacci neri  pisciano lungo,  corto,  medio,  cascate grondanti sulle penne infiammate, nella macchia ad ogni frase è teso il laccio, profumo di carne, di sangue,  vieni vieni, qui è la delizia, i tronchi cosparsi di vischio,  reti che cadono, guardate come sono bello,  chicchiricchiii! guardate come brucio, che fuoco,  ragnatele ad ogni parola, cos’è questa penna che mi sto mettendo in culo, sale, gonfia la lingua, preme dalla bocca, credevo fosse il mio becco, l’impalato, il totem,  sono io!

La mummia raccoglie manate di inchiostro e le spalma sulle penne facendole brillare, il ventilatore ronza, l’aria mossa asciuga veloce, poesia spinta a forza dalla creatività,  strati di polvere magica giallo zuccherino, lo specchio al soffitto inizia ad illuminarsi riflettendosi nella vasca,  sta sorgendo il sole,  è l’alba.

“Stai cercando spiegazioni?” chiede.

“Se sono impalato che ci faccio qui?”

“E’ qui che sei impalato.”

“Tutte queste penne, un abito come le tue fasce, cosa c’è sotto? Chi sono quegli scimmioni che mi leccano il sangue dal culo? E’ una domanda, tu fai le domande, allora è una risposta, chi sta parlando, io o tu? Tu lo hai detto, io rispondo il bene ed il male siamo noi, noi due, tu sei impalata, ti guardo guardandomi, uno specchio!?”

“Non ti fa pena?”

Un getto di vomito sul pavimento.

“Buono da leccare, fermenti vivi, una leccornia.”

“Voglio ruggire da tigre!”

“Amami, sbranami!”

“Sbraniamoci, ma come? Tutte queste penne così dure, taglienti, una corazza impenetrabile, ti voglio pelle contro pelle.”

“Come sei frettoloso, senza penne potresti vergognarti.”

“Nudo, senza vergogna! Quello che sono, che siamo!”

 

La mummia si corica sul bordo della vasca ed allarga le gambe. Le fasce che le ricoprono la vagina si arrossano di sangue mestruale, un getto continuo, abbondante, profumo di marcio,
decomposizione, putridume d’idee invecchiate e morte per essere sepolte nella carne viva, cenere sulla brace, inizia a far caldo.

La Natura ha le sue regole, preliminari per scaldare la brace, il mantice soffia sul fuoco.

Un tuffo nel sangue, il becco si ritira ed il palo si sfila dal culo automaticamente, impalato rimane il significato a priori, un fantasma, nulla.

La lingua lecca avida le fasce inzuppate, marzapane imbevuto d’elisir, vivo, frizzante.

“Aspetta.” dice la mummia, “Ho le emorroidi gonfie, fammele scoppiare coi denti.”

Il sangue dilaga, la bocca piena, un boccone dopo l’altro, la vagina ed il ventre dell’Opera sono scoperti, senza pelle, la lingua affonda nell’interno leccando gli umori vitali che scorrono copiosi,  i denti lacerano, sbranano, un apoteosi di vita, un orgasmo continuo, a mitraglia, getti d’entusiasmo che sprizzano liberi spolverati dalla cenere insanguinata che scorre nelle budella verso il fine totale.

L’uragano cosmico è scatenato, esplode libero sconvolgendo l’universo, la carne leccata è condita da parole, guarnita di frasi e periodi scricchiolanti d‘ironia, spruzzi di vita, nettare degli dei, la poesia esce a fiotti, le ossa si spezzano, gli organi palpitanti si staccano dal corpo, le budella si srotolano, il cuore esulta di desiderio, i brani scivolano nella vasca e continuano a pulsare di vita propria.

Il caldo è diventato insopportabile, sullo specchio al soffitto è apparso il sole, gli strati di inchiostro secco sulle penne prendono fuoco, l’uccello si incendia, una vampata di fiamme che raggiunge la pelle, brucia, dolore atroce essere nudi, i nervi scattano in una danza forsennata, automatica che si spegne a tuffo nella vasca tra i brani della Opera assetati di carne viva, un orgia fremente, getti continui di poesia dentro il cuore, il fegato, i polmoni, lo stomaco, la testa, gli arti e continuano penetrando e fecondando ogni particolare.

La vasca esplode nell’universo, i brani dell’Opera ora risplendono di stelle fecondate, tutte le galassie, le costellazioni ruotano intorno all’uccello di fuoco.