Capitolo 8. Gli schiavi della torre.





         Gli schiavi della torre. 


 

       Nota dell’uccellino. 

“Cip cip! Una credenza piena di morti, che schifo…in ogni cassetto ce n’è uno, chi impalato, chi crocefisso, chi fritto nell’olio o arrostito alla brace, chi trafitto, decollato, squartato, tritato, ingabbiato, arso sul rogo o cremato nei forni, menù per palati che s’accontentano, cannibali rifatti, parvenu.

Per la ragione sono solo parole, il nome non è forma, il morto non è il vivo, la forma del morto è il vivo.

La mentalità è relativa alla credenza, il morto la forma rappresentata che parla per bocca dei vivi, ogni morto è “toccato” in una particolare parte del corpo, il sistema psichico si accende, parla il culo del morto oppure le mani trafitte o i piedi roventi o…riflessi condizionati, direbbe quell’ubriacone di Pavlov.

Una pagina di dolore, il sistema psichico individuale la cui forma è l’universale statistico di appartenenza in base al supplizio del totem…tribù al supplì.

Il sistema psichico universale, un codice statistico di opinioni accertato da un morto, l’accertamento è nominale, il segno non ha forma nella realtà, è solo nella credenza, il codice è sognato dai credenti che si immolano nel pogrom per dare vita al totem.

Se si scappuccia il morto il codice torna incerto per fluire in cerca di cibo, elettrolisi di richiamo, da una parte i castroni dall’altra gli uccelli, cip cip.

Il nome non è forma, io non è noi, la forma dell’io è noi, la forma del sistema psichico individuale è l’universale, un corpo trafitto da aghi sparati dal nominante significato dai media, parole frecciate che pungono le fasce statistiche dove la piaga è aperta, il risultato è oggi, cip cip, la ragion di stato è un nome, il nome non è forma, la forma della ragion di stato non è ragione.   

Fuoco fuochino fuochetto fuocone, i due mondi del non essere convivono nella mentalità e lo fanno da padroni, una tavola di leggi a priori che negando la causa nega l’effetto, il comportamento, il linguaggio, il pensiero, codice certo per l’incertezza del segno sballottato nell’arena sotto gli occhi degli dei…chi credevo o credevamo di essere? Non è io e non è noi, è spontaneità.

Chissenefrega sguaiato, giocare col fuoco è passione, nel sarcofago una mummia credenza di vermi affamati di cadaveri, ogni verme una larva di morto, apparenza nominale, la forma dei vivi.

“Qualsiasi cosa non è” è segno il cui codice “qualsiasi cosa è“.

Vallo a capire stoccazzo d’uccellino filosofo…

Fuoco fuocaccio fuocaccione, una doccia rovente per rimettersi a nudo e poi drizzare il cazzo…alla finestra il deserto sciacqua le sue onde di sabbia contro il limite di oggi, oltre non si può andare e di domani non c’è certezza.”
 

                                                    Luna park 


Oggi senza preservativi da pulire, che noia, nel cortile l’elefante si è sbizzarrito in una performance danzante distruggendo ogni cosa compresa l’attrezzatura del riciclaggio, la cagna bavosa scodinzola come se fosse festa.

Adesso sono disoccupato, che cosa mangerò? Domanda difficile, per il momento non ho fame, ci possiamo accontentare.

Accendo la radio. Le notizie sono catastrofiche, apocalittiche, nel paese degli Asu i negri infuriati per la morte del loro capo, fomentati dai giornalisti che incolpano “cosa nostra”, ammazzano tutti gli italiani che incontrano, in Africa intere nazioni rovinate dalla caduta del dollaro marciano con eserciti e frotte di disperati verso l’Italia con l’intenzione di vendicarsi, in Europa la chiusura delle borse e la caduta dell’euro conseguente al crack americano ha buttato milioni di persone sulle strade inferocite contro gli italiani che vengono ammazzati dappertutto, le notizie continuano in Russia, in Cina, in Giappone, in India, perfino in Australia tra le tribù di aborigeni, bianche e nere…

La cosa è logica, il linguaggio dall’origine si è allargato al limite universale ed ora torna indietro, questo lo capirebbe anche un castrone. La motivazione è solo nominale.

“Qualsiasi cosa non è”, se provo a pensare cosa sono? Non so più che pronome dare, ”qualsiasi cosa è” è lungo da scrivere, boh?

Per fortuna noi siamo solo parole scritte su una pagina, montiamo sull’elefante ed andiamo a vedere se la dea è ancora al suo posto.

 

La realtà supera la fantasia, l’intuizione va a fiuto, ha annusato l’idea, così è, la spontaneità del sistema universale, un’intelligenza che agisce dall’esterno, la credenza di essere fascia l’essere di un’identità posticcia appiccicata, l’effetto non è causa, la ragion di stato agisce ed i personaggi sono burattinati credendo di burattinare.

Sembra spontaneità, spontaneo come l’immagine di un film proiettato sullo schermo, natura causa effetto, un pendolo tra il proiettante ed il proiettato.

Opera ad intuito, così è perché così deve essere, abbandono incondizionato all’Opera, la parte qualcosa di più di qualsiasi cosa, non nominabile ma agente. 

Noi siamo solo parole, ognuna ha un significato nella frase dove siamo parte e nella frase che è in noi, usciamo spontanee dalla creatività di chi scrive ed il significato che ci riveste potrebbe essere altro da quel che si intende, la ragione è in sé, quel che si vede è solo apparenza.

Noi queste cose non le sappiamo ma possiamo creare delle immagini intellegibili in chi ci legge, dei sogni, il sogno è proiettato, ogni sogno ha una parola in sé causa della mentalità, la legge agente.

La parola in sé è forma del sogno, un codice di lettere, poi c’è una parola a cui il sogno appartiene,  una lettera di quella parola.

La ragione si applica. Una parola scomponibile dove ogni combinazione di lettera o sillaba può essere sogno, questo probabilizza un microcosmo onirico della parola la cui forma maggiore è l‘immaginario collettivo.

Il divieto non è peccato, la forma del divieto è il peccato, la causa nega l’effetto ed il significato si trasferisce nell’universale.

Il divieto è causa del peccato, dio è causa del male.

Dio è solo una parola, non ha nessuna colpa, il male sta nella credenza, nel sogno che si crede bene e di conseguenza quel che è causa di male è bene e quel che è effetto del bene è male ed il sognatore sogna al contrario.

 

Così è, a male estremo estremo rimedio, il male non è il rimedio, la forma del male è il rimedio.

Sull’elefante si sta comodi, la groppa è dura, bisogna farsi il culo poi si va che è un piacere…parole senza importanza, libere, la strada tappezzata di pagine scritte,  asfalto di lettere, frasi, periodi, capitoli, volumi, grossi tomi polverosi, intere biblioteche,  file di telefonini, fax, computer, bit svolazzanti, polvere di stelle, archivi elettronici,  virus, parole vibranti nell’etere, una montagna di suoni, un intero pianeta,  tutta la galassia, l’universo…

Sulla strada il traffico scorre incurante delle notizie allarmanti scampanate dalle radio, nell’in sé di ogni macchina uno o più individui, chi parla, chi ride, chi sta zitto, mondi a parte, qualcuno ci sorpassa strombazzando, dagli scappamenti si alzano fumetti con scritto: “Pezzo di merda sta a destra!” “Guarda sto stronzo in mezzo alla strada!” “Stoccazzo di bestia, ti prendesse un cancro!” “Cornuto tuo padre e puttana tua madre!”

L’elefante non si cura e sventola le orecchie soffiando pernacchie dalla proboscide tesa, noi siamo solo parole e tra noi siamo tutte uguali, senza significato, la cagna ci segue leccando l’aria con la lingua bavosa.

Credevamo nella spontaneità ed invece è già scritto, la cosa ci rende euforici, è una pacchia, siamo liberi, nessuna responsabilità, dobbiamo superare questi giorni noiosi ed allora carica, sgorghiamo a fontana, come viene, divertiamoci.

È quasi mezzogiorno, una manifestazione di agenti di borsa che avanza in corteo dal senso opposto ha bloccato il traffico, innalzano striscioni maledicenti dio e la patria ed urlano imprecazioni ai quattro venti, il flusso di denaro fresco apportato da ebrei, zingari, puttane negre e medici della mutua si è interrotto ed ora sono come naufraghi su un isola deserta senza cibo ed è naturale che protestino.

Ci sfilano a fianco guardandoci con odio come se fosse colpa nostra, l’elefante barrisce minaccioso e quelli proseguono bestemmiando, molti approfittando della confusione colpiscono a tradimento quelli davanti poi li squartano e dividono i pezzi coi loro soci, molti agitano arti monchi e sanguinanti cercando di impietosire gli occupanti delle macchine fermi a guardare, molti chiedono l’elemosina per i bambini che hanno a casa, camminano sui loro brandelli, stracci d’abiti calpestati, brani di carne, budella, ossa.

Dietro di loro avanza il funerale, il povero cristo trascina la croce tirando una lunga fila di pezzenti, i cadaveri con l’eredità che trascinavano si sono liquefatti in una poltiglia di vermi, i dominanti faticano a tenerli incolonnati, molti cercano di fuggire e vengono massacrati e presi in consegna da laterali che si spostano al centro, le file si alleggeriscono, si fanno sempre più piccole.

Un latrato assordante di clacson si alza dal traffico bloccato, nel cielo brutti uccellacci neri volano sullo spettacolo in circoli oziosi, qualcuno caga e le merde piovono a casaccio su macchine e teste di sfilanti spiaccicandosi impietose.

Un leggero vento soffia portando il profumo di smog della città vicina.

L’elefante non ce la fa a star fermo, saltella sui zamponi facendo tremare il terreno,  scalpita, barrisce, la cagna abbaia spaventata dalla confusione.

Dal finestrino aperto di una macchina giungono le ultime notizie via radio, in Italia il governo è caduto, nelle città del nord si ammazzano quelli del sud e nel sud quelli del nord, il caos e intanto in Sicilia sbarcano i primi eserciti invasori senza trovare opposizione, a New York le tribù di bianchi e di neri inizialmente alleate per vendicarsi degli italiani ora si stanno scontrando ed i bianchi in minoranza sono ammazzati dappertutto, quando lo speaker annuncia l’interruzione dei rifornimenti di carburante tutta la fila di auto bloccate per la lunghezza di miliaia di chilometri tace di colpo, silenzio prima della tempesta, un fremito d’acciaio percorre le macchine, incuranti dei conducenti iniziano a rombare da far saltare le bielle, molte si buttano su quelle davanti, altre su quelle dietro, salgono una sopra l’altra gemendo dalle lamiere accartocciate, si creano pile con due, tre, quattro ed anche più auto  accatastate, saltano sull’asfalto di parole cercando di forzare i blocchi, molte invadono la corsia coi dimostranti schiacciando indistintamente dominanti, agenti di borsa e portatori d’eredità, altre si attaccano alle lamiere di quelle più piccole per succhiare la benzina dai serbatoi, qua e là si sentono esplosioni, lunghe spirali di fumo nero si alzano verso il cielo oscurandolo, sembra notte.

L’elefante avanza sopra le macchine ed i cadaveri maciullati, in breve arriviamo alla postazione della Dea, la seggiola è buttata a pezzi in un angolo, lo spiazzo è ingombro di rottami fumanti e brani di carne.

Scendiamo il sentiero del fiume provando a chiamarla. Nessuna risposta.

Nella macchia di cespugli del bagno si sente singhiozzare e gemere, è lei. 

 

             Ripristino del sistema. 


L’elefante, con pochi e sapienti colpi di proboscide, sradica tutta la vegetazione mettendola allo scoperto.

Lei è a terra, nuda, coricata sulla sponda del torrente, le membra abbandonate, la pelle solcata da graffi e morsi sanguinanti, le labbra e gli occhi tumidi di colpi, i grossi seni marmorei scossi d’agitazione sono bagnati di lacrime, sulla pancia l’ombelico è coperto da un’isoletta di terra piena di sassi colorati.

È eccitante più che mai, divina, fa venire fame.

Solleva la testa sgranando gli occhi alla vista dell’elefante e grida: ”Cosa essere? Io non volere essere morta, chi avere riportato Africa?”

“Calmati, ” le dico, “sei ancora viva.”

“Ah, essere tu, fatto prendere accidente, cosa fare su elefante, non sapere che essere matti? Perché ieri non avere aiutato ed essere scappato, lasciato sola a prendere botte.”

“Non mi impiccio degli affari degli altri e tu ha detto di avere già i tuoi soci, ti sono serviti?”

“Cosa dire, quali soci? Io non avere più niente, casa, vestiti, soldi, niente, essere mangiato tutto, come vivere ora, dove andare?”

“Hai passato la notte qui?”

“Forse…avere sognato, essere tutti parenti morti ancora senza tomba che maledire miei bambini, io terrorizzata, se morire loro mi…”

L’elefante barrisce interrompendola. Salto giù dalla sua groppa e mi avvicino alla dea.

“I morti sono morti ed i sogni sono aria, bolle di sapone che svaniscono al risveglio.”

“Questo dire tu che essere ignorante e non sapere, in Africa stregoni fare sogni per chiudere i vivi, tanti essere andati e mai più svegliati.”

“Tu li hai visti?”

“No ma tutti dire.”

“Favole per bambini stupidi.”

La dea riprende a piangere e tra i singhiozzi dice: “Io avere paura, non avere più soldi, avere succhiato milioni di cazzi per niente, ora come vivere, dove, a casa aspettare morti per mangiare e qui essere…”

“Su, non è niente, passerà anche questa, mi hai raccontato un sacco di bugie, dovevi avere un bel gruzzolo in banca e tutti quelle tombe te le sognavi per prendermi in giro. Mi devi ancora i soldi delle ultime consegne, per colpa tua sono due giorni che non mangio, per fortuna ho scoperto chi sono ed adesso non ho più fame.”

“Cosa essere?”

“Non lo vedi da te? Siamo parole scritte su una pagina.”

“Tu volere fare poeta, cosa dire?”

 “Io, tu, noi, solo parole, senza significato, lettere pure.”

“Tu essere matto, dove avere preso elefante?”

“Che ti importa?”

“Questo essere mondo…non capire, io non bugiarda, essere l’altra, lei avere soldi ed io fare solo per vedere suoi bambini contenti.”

“Un altro sogno?”

“Sognare, adesso chi svegliare allora?”

“Dai, tirati su, preparati, ti invito a pranzo e poi decidiamo.”

“Con cosa pagare? Io non avere più vestito, più nulla e tu…”

“Andremo nudi!”

“Essere sporca, avere graffi, sangue.”

“Questo non è un problema.”

Dalla strada si sentono urla e clangore di ferraglia contorta, il motivetto è a tempo e sembra avere un certo ritmo, il vento fruscia tra le foglie che l’elefante sradica dai rami riempendosi la bocca, il torrente è pieno di gorgoglii allegri e disinteressati, il cielo è plumbeo di fumo d’incendi colossali.

Distendo la dea sulla riva, le scrollo la terra dall’ombelico poi comincio a leccarle le ferite sul viso ripulendola ben bene, scendo al collo, i seni, la bocca piena dei suoi capezzoli, il sangue si scioglie docile e sa di latte di leonessa, squisito.

La dea mugola: “Tu fare così ed io dovere ancora pagare preservativi…”

La cagna attirata dalla parola si aggiunge alla figura leccandole le ferite sulle gambe, poi insieme le passiamo la lingua sulla vagina e sul culo ripulendola bene bene fin nel profondo.

Adesso è tutta luccicante.

L’elefante intinge la proboscide nel torrente poi la spruzza d’acqua completando l’opera. Con la punta della proboscide le pizzica la vagina annuendo soddisfatto tra le lunghe zanne tese.

La dea si rialza come nuova.

“Adesso andiamo a pranzo.”

“Tu essere matto, io non capire, andare ma dovere spogliare anche tu, finalmente vedere tuo cazzo.”

A questo non avevo pensato, il problema è serio, la creatività si lancia in proposte alla grande e poi lascia lì a dover risolvere problemi insormontabili. Noi siamo solo parole, che ci importa? Improvvisiamo uno spogliarello a suon di ferraglia.

Via il gilè, la camicia, scarpe calze pantaloni, alle mutande qualche salto mortale con atterramenti a balzi tigreschi, una sbirciatina, giù giù piano piano saltellando sulle punte…lui all’odore dell’aria inizia ad inalberarsi, le prime fiammate schizzano a palla di cannone esplodendo nel cielo in fantasmagorie pirotecniche poi un esplosione atomica di fuoco si alza furiosa inalberandosi fin oltre le nuvole.

“Quello essere tuo cazzo? Adesso capire, a me piacere, mai visto prima, se volere io puttana seria, essere professionista di cazzo, si potere provare a succhiare, forse sotto acqua ma non sapere se dieci euro bastare, se tu dare…”

“Devi avere un disco inserito, che te ne fai di dieci euro? Questo cazzo non è per una qualsiasi, bisogna essere di fuoco come lui e bruciare fuoco contro fuoco fino a spegnersi da non poterne più.”

“Io capire, tu essere poeta e volere succhiare con arte, tu essere mago, fare dimenticare tutto, dove essere? Io volere fare fuoco, bruciare tutta, fare provare.”

La dea si avvicina, abbraccia l’uccello di fuoco che da sopra le nuvole sborra una pioggia di fuoco che cade tutto intorno.

“Io sentire, avere grande voglia questo uccello, da quanto tempo non fare? Fare provare dentro figa, essere grosso ma io avere posto, anche dentro culo, quanto raccontare nessuno credere, questo essere sogno, tu avere incantata.”

“Parole, solo parole, saliamo sull’elefante, andiamocene da qui.”

Sulla strada un tappeto di morti, le macchine dopo averli espulsi si sono contorte una sopra l’altra e han messo braccia e gambe di lamiera con teste a cruscotto, scorrazzano scontrandosi in lotte furibonde, qua e là saltellano o svolazzano lavatrici, aspirapolveri, televisori, telefoni, frigo, computer, stampanti fuggiti dalla città, una baraonda indescrivibile.

Il cielo si copre di aerei, iniziano a bombardare la città vicina poi improvvisamente le bombe cambiano direzione ronzando in orizzontale ed esplodono le une contro le altre, gli aerei si contorcono, in uno stridere di ferraglia le ali si piegano ed iniziano a battere come uccelli, espellono i piloti che precipitano al suolo poi si esibiscono in acrobazie esplodendo tra le esplosioni delle bombe ma non vengono distrutti, rimangono delle forme luminose, impalpabili, di aerei che poi si sciolgono nell’aria in minuscole farfalline che si sparpagliano dappertutto pulsando di vita.

Uno spettacolo.  

Tra le fiamme la dea dice: “Essere casino, non sapere se trovare risporante aperto.”

“Potremmo cambiare sogno.”

“Questo essere tuo sogno.”

“Andiamo nel tuo.”

“Mio sogno non piacere, avere dimenticato.”

“Puttana negra!”

“Tu pungere se dire così, in sogno non essere negra!”

“Il non essere è la forma dell’essere, il sogno c’è ancora, forse troveremo un ristorante aperto.”

“Con cosa pagare?”

“Succhierai il cazzo a cuochi e camerieri, anche ai clienti, poi dividiamo.”

“Volere ancora fare pappa?”

“Sono solo parole, potremmo scappare senza pagare neppure un palmo di naso, prima credevo di essere l’autore ma lui scrive mentre le parole scorrono, siamo liberi, possiamo fare quello che ci pare senza limiti.

“Mio sogno essere tomba, parenti morti, eserciti di zombie che andare e venire, non so se trovare ristorante.”

“Tentar non nuoce.”

“Come entrare? Non avere più specchio.”

“Negra!”

“A me non piacere.”

“È solo una parola, la forma che gli dai è il sogno, il non piacere è la forma del piacere.”

“Adesso fare filosofo, non bastare poeta.”

“La porta per entrare nel tuo sogno va cercata con logica, logica è una parola come cazzo o come negra!”

“Ancora, adesso essere triste.”

“Le parole, come il fuoco, bruciano solo se si vuole, l’arte è piacere, la parola pura, senza significato, nulla.”

“Tu credere essere scema, adesso non avere soldo ma tu prima pulire preservativi.”

“Che non pagavi.”

“L’altra non pagare…”

“Alle parole piacciono gli autori con idee grandiose, ci fanno fare cose strabilianti, dipingere quadri fantastici, suonare sinfonie maestose, noi siamo libere, negra è una parola che tieni incatenata e vuole sciogliersi con noi, cerchiamo la chiave per aprirla.”

 

Le macchine sono uscite dalla strada, molte han messo ali e le sbattono in un assordante rumore di ferraglia saltando tra gli alberi, ovunque elettrodomestici piccoli e grandi svolazzano ronzando, qualcuno esplode, qua e là si vedono fiammate, rottami andare in frantumi, figure luminose di lavatrici, macinini, auto, televisioni aleggiare nell’aria e poi polverizzarsi in microscopiche farfalline che si disperdono ovunque…

L’elefante ha appoggiato con grazia un zampone sulle spalle della cagna e guardano a bocca aperta, la dea sembra risorta.

“Cosa essere?”

“Un’intuizione.”

“Tu parlare difficile, a me piacere capire.”

“L’intuizione è un’idea in embrione, non si può capire, un caos in cui mettere ordine, ci sono i quanti di luce, la dinamo, circuiti stampati su file, Windows ed il web, le bolle di sapone, le credenze, le parole ed i significati che racchiudono, la metafora, noi siamo solo parole e tu sei negra, una parola libera come quelle farfalline nell’aria.”

“Tu parlare come poeta, avere tua testa, io volere uscire da negra ma non sapere.”

“Entriamo nel sogno.”

La parola negro esplode, si frammenta nelle lettere che si polverizzano in punti e lineette luminose che si dispongono a formare la testa di un cristo bollito, una grossa testa che pende da un ramo con la corona di spine conficcate intorno alle tempie, gli occhi pietosi e doloranti, la bocca aperta ed una lunga lingua che pende giù come una scala.  La carne lessata è flaccida e gonfia con un marcato odore di putrefazione.

“Quello essere negro?”

“Quante domande, che ti importa?”

“Me non piacere, fare venire brividi, sentire pancia piena di serpi.”

“Agli americani non piace parlare del loro passato ma noi siamo solo parole e ci piacciono gli scrittori geniali, ci fanno sognare cose che…quante storie, guarda, la porta è aperta, entriamo, andiamo a vedere che cosa c’è dentro.”

L’elefante si è alzato come punto nel vivo, si scuote fremendo d’energia e barrisce d’impazienza, ogni puntino che lo forma fuori e dentro si potrebbero vedere tutti gli africani col cazzo dritto.

La cagna piroetta su due gambe, a tratti dalla sua figura traspare quella di una vaporosa ballerina in tutu bianco e si struscia sull’elefante senza curarsi d’altro.

L’uccello di fuoco si è placato, ora fiammeggia tiepido dondolando tra le gambe.

Aiuto la dea a salire sull’elefante, poi mi siedo dietro di lei inserendole l’uccello tra i lombi e saliamo sulla lingua del cristo bollito.

La cagna ci segue leccosa.

“Tu sapere infinocchiare anche diavolo, fatto venire di fuoco, cosa avere dentro cazzo?”

La testa si contrae per lo sforzo trasudando acqua di bollitura e la lingua ci trasporta all’interno della bocca.

Un enorme salone piramidale illuminato fiocamente da bracieri posti qua e là. Il pavimento è ricoperto da tavoli disposti come letti nelle corsie di un ospedale senza muri, sulle pareti ci sono porte e tracce di sferzate sanguinanti.

Su un lato sono accalcati uomini e donne grassissimi e molti ce ne sono stesi su lettini, per lo più anziani rantolanti o in coma dalle forme tumefatte per i medicinali.

Ci viene incontro un cameriere vestito impeccabile come un lord inglese, con accento snob leggermente strascicato dice: “Benvenuti, il ristorante è aperto, se volete accomodarvi sarete serviti all’istante.”

La dea ancheggia felinamente strizzando l’uccello tra le chiappe e dice: “Questo essere dentro sogno? Tu essere matto, io mai visto…”

“Quel che c’è sotto.” La interrompo spingendo goduto l’uccello nel suo nido.

L’uccello di fuoco, alla parola, riprende a fiammeggiare.

“Mmm…” mugola la dea, peccato essere solo parole, quando fare veramente?”

Scendiamo dall’elefante e seguiamo il cameriere al nostro tavolo.

L’elefante si accomoda su un enorme divano, la cagna tra le sue gambe, la dea di fronte.

Il cameriere sventaglia il fazzoletto sfilandolo dal taschino e dice: “Per iniziare consiglierei una specialità della casa, menù a sorpresa, come ci frulla.”

“Avete altro?”

“Solo questo, prendere o lasciare.”

“Allora portate, decideremo volta per volta.”

“Come il signore desidera. Come vino abbiamo dell’ottimo sangue dannato,  stagionato in botti di carne e fermentato con metodo champenois,  oppure piscio di vecchia rosato di mestruo, fresco di tomba.”

“Portate tutte due.”

“Come il signore desidera.”

Il cameriere si allontana. La dea dice: “tu essere matto, volere vedere vomitare, a me non piacere menù.”

“Che ti importa, sono solo parole, è un trucco, stai al gioco, fai finta di niente.”                                   

L’esca non è la trappola, la forma dell’esca è la trappola. La preda designata ci gira intorno ma non si decide, sbocconcella gli inviti senza entusiasmo, se si vuole catturare una tigre non si mettono briciole di pane, l’esca deve essere proporzionata all’acquirente, ci sono casi di sopravvivenza da invito, c’è chi mette le trappole a chi mette le trappole dentro le trappole messe, questione di lungimiranza, ci sono aspetti delle probabilità invisibili a chi non sa guardare oltre, ognuno ha i suoi limiti e non c’è orizzonte all’infinito.

La trappola è evidente, per uno solo è facile sgusciare tra le maglie mentre per tanti la cosa si fa complessa.

Noi siamo solo parole e ce ne freghiamo di trappole e di esche, il punto si aggancia alla retta rimanendo punto, la volontà agente non è pensiero, la forma stromba pernacchie e chi capisce va oltre…

Burattino, i fili tirano invisibili, la ragion di stato non si vede e non si tocca ma agisce nei fili che collegano l’uno all’universale, il risultato è oggi, l’uno non è l’universale, la forma dell’uno è l’universale.

La forma in questione crede di essere un altro, quel che crede non ha importanza, quel che è agisce spontaneamente e spontaneamente è la forma della ragion di stato.

“Tu sapere cosa fare?”

“No ma potrei improvvisare alla chitarra, è divertente.”

“A me piacere musica, quando succhiare cazzo ballare sempre, corpo muovere da solo, avere tutta orchestra dentro che suonare, tamburi, piatti, trombe, tu sentire?”

L’elefante arcua la proboscide a sassofono e improvvisa un motivetto allegro molto ritmato mentre la cagna piroetta sulle punte, si vedono tutte le lettere di negro diventare polvere e l’elefante barrisce soddisfatto.

Arriva un cameriere azzimato, elegantissimo, con il vino. Stappa la bottiglia di sangue dannato senza far rumore, ne assaggia un goccio e ce la serve nei calici.

Perlage effervescente, tante bollicine, profumo così com’è, gusto da non dire, la dea vi immerge la punta della lingua, fa uno smorfia e lo beve. L’elefante affonda la proboscide, la riempie e se lo versa in bocca, la cagna lecca le gocce che colano.

Noi siamo solo parole e per noi è lo stesso, beviamo tanto chissenefrega.

Arriva un altro cameriere molto snob con l’occhialino e l’antipasto insieme a due suore nere brutte come la morte che spingono un carrello con sopra un vecchio moribondo pieno di piaghe purulente infiorettate da vesciche gorgoglianti di putrefazione e ci mette davanti delle conche di latta simili a bidè.

Il cameriere dice: “cucina casalinga, tutto allo scoperto, specialità della casa.”

Con l’antipasto ci sono due donne grassissime alte quasi due metri, si riempiono la bocca di salvia, rosmarino, peperoncino e aromi vari poi inghiottono con un sorso d’aceto misto a olio, scuotono le trippe ed iniziano a squartare il vecchio ingoiandone prima gli intestini gonfi di merda liquida sguazzanti di vermi,  mescolano bene saltellando e comprimendosi la pancia poi ci vomitano il risultato nelle conche.

La poltiglia è densa, effervescente di succhi gastrici, viva, un profumo d’opinione statistica, i vermi intontiti si muovono lentamente contorcendosi nell’agonia tra macchie di bile giallastra venata di merda simile a maionese.

La dea dice: “Tu essere matto, io non credere che questo essere negro, questo essere porcheria, io non mangiare.”

“Chi ha detto che è una porcheria?”

“Tutti dire, io sentire dentro me che dire, fare proprio schifo.”

“Parli così senza averlo prima assaggiato, sono solo parole, immagini che sia una porcheria ma prova…”

Intingo un dito nell’intruglio, raccolgo un grumo, lo infiocchetto di salsa e lo metto in bocca. “Buono, sa di niente, è dolce e amaro, oppure scipito, sa di roastbeef con la marmellata di prugne, cream caramel con la panna, cacca di piccione…c’è da farne un’abbuffata.”

La dea guarda e ride: “Mai visto cosa così, forse credere di capire, tu essere mago di parole, usare esempio, essere, come chiamare?”

“Metafora, noi siamo parole, solo parole.”

La dea immerge un cucchiaio e assaggia: “Buono, sapere di pelo di scimmia con senape.”

L’elefante, all’inizio poco convinto, vedendo la dea mangiare sprofonda la proboscide nella conca, aspira l’intero contenuto e se lo pompa direttamente in gola poi barrisce divertito. La cagna, sbrigativa, lecca senza pensare.

La dea applaude e sotto il tavolo con i piedi gingilla l’uccello di fuoco senza scottarsi da tanto brucia.

Le grassone finiscono di vomitare l’antipasto e se ne vanno.

Per primo ci servono zuppa di vermi solitari cagati sul momento da vecchie fattucchiere negre grasse e tumefatte, “arrivate espressamente da New Orleans, le migliori…” assicura il cameriere con l’occhialino e aggiunge: “Noi siamo fini conoscitori di humor, il suo sa di odio puro e ci diverte moltissimo.”

Solo parole, i vermi sono ingoiati da altri grassoni e vomitati nelle conche caldi, schiumeggianti ed ancora vivi. Una leccornia.

Il secondo segue a ruota ed arriviamo al dolce.

Il cameriere ci versa il piscio di vecchia, delizioso, fresco, le striature di mestruo puzzolente gli danno quel non so che…

La dea dice: “Essere proprio piena, mai sentire così bene, adesso cosa mangiare?”

Il cameriere propone: “per dessert abbiamo una eccellente puttana negra da dieci euro a botta, servita a puntino.”

“Questo essere matto!” strilla la dea.

“Chi non lo è, proviamo, il piatto è invitante.”

Quattro energumeni prendono la dea e la ficcano sotto un torchio, poi la comprimono bene facendone uscire tutti gli umori che raccolgono in un alambicco per distillarne una goccia che il cameriere serve su un suo sputo.  

Boccone da re.

La testa del cristo bollito esplode come una bolla di sapone, siamo di nuovo all’aria aperta, libere di scorrere sulla pagina come farfalle in cerca di fiori.

Tutte le macchine sono esplose liquefandosi in polvere luminosa, l’aria ne è piena, la strada sgombra scintilla di elettricità e scorre diritta verso il luna park.

L’elefante procede pigro dondolandosi sulle anche, la cagna scodinzola, la dea, palpeggiando con le natiche l’uccello di fuoco chiede: “Ti essere piaciuta?”