Capitolo 7. Hellequin.




                Hellequin

 

 

Uccello autodidatta, scuolato in un botte di piscio fermentato misto a mestruo di vecchie maestre indottrinate, in un cantone preservativi usati votati al riciclaggio, tra i tanti ci sono Aristotele, Hegel, Dostoevskij, Tolkien, il loro sperma leccato fino all'ultima goccia pesa indigerito nello stomaco dell'intelletto, favole, storie,  romanzi,  interessi in ogni campo concimato dalla merda del sapere cattedratico, oceani di parole fluttuanti sotto lo schifo condizionato che galleggia mediando tra le mezze verità e mezze menzogne dell'uno apparente.

Infetto di superstizione trasmessa dal transfert culturale, il bene nega l'effetto, il male nega la causa, i due mondi del non essere convivono nella mentalità manovrando il comportamento tra faccia e culo,  stereopsicotismo dall'individuo alla massa,  fenomenologia dello spirito statistica, digestione invertita, si mangia dal culo, si caga dalla bocca, il culo nascosto dal senso di colpa di essere male, la bocca scoperta dall'abito perbenista.

 
Lo sperma indigerito mattone giudicante pesa le intenzioni, la massa statistica è individuo, la forza dei più gli dà l’energia per pontificare il bene ed il male, popoli di ladri dalla faccia pulita ed il culo sporco ad imitazione del totem di riferimento.

 

L’uccello negato incrostato di merda muffita si è avvoltolato in un nido piumato di menzogne, al fuoco! Il rogo del sapere umano, tutto lo scibile, le convenzioni, le convinzioni, i libri, le date, le cattedre, i nobel, la scienza ufficiale a bruciare, cenere per il vento del progresso, tabula rasa, si inizia dal nulla.

La ragione umana non è bene e non è male, non è su e non è giù, non è bianco e non è nero, è l’uno assoluto, intorno gira un’immensa ruota panoramica, l’universale dell’arte in tutte le sue manifestazioni.

Digerire il mattone è un problema logico molto interessante, la realtà recita su un palcoscenico di apparenze, eliminata la scienza del bene e del male rimane la causa e l’effetto, la parola ed il corpo che la pronuncia, l’energia ed il cibo, la vita.

Alla finestra la specie preumana è un’immensa giostra di meraviglie, per calcolare le probabilità occorrono fatti certi, in mancanza di questi ci sono i sassolini di Hansel e Gretel o si fa come Teseo e si segue il filo della creatività per uscire dal labirinto.      

 

“Perdonatemi…a quei tempi non sapevamo cos’era il male, non sapevamo neppure di esistere, era tutto naturale, si mangiava e si era mangiati per la sopravvivenza della specie. Lo vedo sa…lei non fa che pensare all’uccello, sta scavando nelle probabilità, fruga nell’esperienza, rovista tra i segni tramandati per dare forma all’intuizione che la sta divorando…”

“Per la clava di Ercole! Vedi bene.”

L’esclamazione ci sorprese, le parole ci erano uscite dalla bocca del tutto spontanee, il tempo si era frantumato ed ora si stava ricomponendo riunendo in un unico istante tutte le vite precedenti. Ci sentivamo come rinati, il nulla era universale, una montagna di cenere che il vento stava disperdendo mettendo alla luce un tizzone ardente.

“Esopo, tu parli come un filosofo, che cosa nascondi sotto quelle zecche?”

“Perdonatemi…io sono queste zecche, è la mia pelle…e passato tanto tempo, allora non parlavamo, non sapevamo di scienza e di coscienza…adesso l’uccello è entrato nel suo nido e si spoglierà,  sembra una favola, una favola di sangue eppure va vista come un passaggio obbligato dell’evoluzione. A quei tempi l’abito era la nostra pelle, distingueva gli uccelli sugli alberi dai cercatori in superficie e dalle mummie ipogee, un rivestimento che aderiva al corpo e viveva in simbiosi con esso. L’abito determinava il comportamento, si nutriva di noi ed in cambio dava l’intelligenza che ci innalzava sugli altri animali, era lo spirito della natura.

L’uccello tigre rappresentava la tribù, la sua espressione migliore, il fiore più bello della giungla. Il suo abito era un congegno sofisticatissimo ed iniziava a formarsi dalla nascita. Perdonatemi…io non ho studiato, quello che so l’ho imparato per strada o ascoltando il rabbino, ci dovevano essere processi fisici e chimici che ignoro nella sua formazione, mi limiterò a raccontare com‘era.”

La galleria proseguiva interminabile rischiarata dalle intermittenze di un mondo addormentato nella pietra, i fossili ci osservavano dalle orbite vuote, le ragnatele che li ricoprivano grondavano polvere attutendo le fosforescenze che emanavano. In quel momento non lo sapevamo ma tutte dopo il nostro passaggio si erano spente e ci stavano seguendo silenziose, ombre nel buio.
 

“Ogni giorno nelle piramidi miliaia di femmine venivano fecondate a getto continuo, gli incendi preaccoppiamento fumavano dagli sbocchi ai vertici delle piramidi  informando la giungla del buon andamento della produzione. A quei tempi la gestazione durava circa sei mesi poi le femmine si sgravavano di quattro o cinque piccoli alla volta, venivano tenuti in comune e  allattati dalle madri fino alla crescita dei denti quindi trasferiti nelle fosse di formazione che erano distinte per maschi e femmine.

Nei primi mesi di allattamento avveniva una selezione in base alla tipologia ed alla domanda alimentare del piccolo, gli uccelli si distinguevano per la voracità e dominavano sugli altri, i tigre erano rari ed appena riconosciuti venivano affidati a speciali balie, femmine minori che si modificavano i seni trasformandoli in sacche che riempivano del proprio sangue e con quello  li nutrivano. 

In quel periodo l’abito è ancora in embrione, covato nell’ombelico, il tratto di cordone ombelicale radicato sulla pancia del piccolo non muore e vegeta. I piccoli si rotolavano nella loro merda, ne erano completamente incrostati, la cellula ombelicale sopravvissuta si nutriva di quella merda ramificandosi col tempo sulla pelle sotto la crosta fecale che diventava sempre più spessa.

Usciti dall’incubatoio i maschi si sparpagliavano nella giungla e le femmine si concentravano in particolare fasce poste nelle vicinanze dei nuclei di riproduzione dove erano nutrite dai cercatori o sbranavano i gonzi che finivano nelle loro ragnatele.

Nella giungla per i piccoli iniziava la corsa per la vita, erano cacciati e braccati da tutti, moltissimi erano catturati e venivano castrati e rimessi in libertà a ingrassare per il futuro, gli uccelli invece si riunivano in bande capeggiati dai tigre, si davano alla macchia ed assalivano e si nutrivano dei cercatori o dei cacciatori che li braccavano.

In questa fase l’abito inizia a delinearsi, i piccoli si foderavano con le budella delle prede che catturavano e ci cagavano e pisciavano dentro, le feci si spalmavano sulla pelle e sotto quell’humus l’edera ombelicale si spandeva per tutto il corpo formando un’ ossatura dura e spessa che si ramificava sulle linee dello scheletro e si diversificava in base ai composti della merda che la alimentava.

L’uccello tigre si nutriva solo di sangue e se non c’erano prede c’era la sua banda, i tigre raramente uccidono e solo per difesa, si limitava ad una salassata che si prendeva a piacere. La sua merda era speciale, aveva un colore, un profumo…l’esoscheletro ombelicale trovava il suo habitat congeniale e si completava, soprattutto nel viso dove i gangli si appiattivano formando una maschera che solo in lui aveva l’aspetto umano mentre negli altri uccelli prendeva la forma di lupi, pantere, leoni e simili.

A questo punto cominciavano a formarsi le piume, non erano piume di uccello, era una specie di muffa che fioriva formando infiorescenze simili a piume anche queste diverse per il tipo di merda. Quando per il sovraccarico si toglievano il budello apparivano in tutto lo splendore della fioritura, il tigre aveva piume tigrate e gli altri le caratteristiche dell’animale che rappresentavano, le muffe erano sovraccariche di fosforo e se asciutte prendevano fuoco facilmente, spesso di notte su pianori collinari radi da alberi, sotto le stelle, si assisteva a veri e propri incendi dove i piccoli uccelli ardevano spegnendosi tra loro ed abbandonavano poi le  pelli bruciacchiate come fanno i serpenti per farsene crescere di nuove.”

 

Il racconto scorreva e la nostra mente ragionava, il tetto delle probabilità era scoppiato e stentavamo a star dietro alla mole di informazioni che uscivano dalla bocca di Esopo. La domanda che premeva era: “perché il rabbino ha voluto che ascoltassimo questa storia?” In quel momento ogni idiosincrasia verso la religione che rappresentava era scomparsa, vivevamo in un sogno ed il sognatore sognava indistintamente noi, lui, Esopo e l’uccello tigre nella giungla preumana, l’intuizione ci consigliava di non anticipare conclusioni, dove non vi è certezza tutto è possibile, anche l’impossibile.

Le zecche ci avevano saziato lo stomaco, eravamo lucidi e determinati, camminavamo nel tempo sopra parole, frasi, periodi,  non era passato e non era futuro, era il presente.

Interrompemmo la storia per dire: “Un sistema psichico animale, un sistema logico a immagine degli animali rappresentati e della giungla, la maschera di un uomo tra le belve, doveva essere uno spettacolo.”

“Perdonatemi, per noi era natura, la nostra vita, la maschera facciale ed un cerchio intorno all’ombelico rimanevano scoperte dalla muffa, avevano l’aspetto ed il colore del marmo, bianco per le tribù chiare e nero per le scure, sembrava un carnevale veneziano. L’uccello tigre aveva aspetto umano, la figura si evolveva dalla tigresca e solo nell’uccello arlecchino la fisionomia diventava perfetta.

All’arlecchino mancava solo la parola, per il resto la sua volontà si irradiava attraverso il sistema ombelicale su tutte le tribù bianche e nere, lui era unico e stava al centro del sistema sovrano assoluto. Era un abile politico, la sua principale occupazione era impedire che i tigre nei settori crescessero troppo di popolarità, una guerra continua combattuta sulla musica dei tam tam ma di questo parlerò più avanti.”

“Tutti i membri della tribù possedevano un tale abito?”

“Solo gli uccelli nelle diverse tipologie maschi e femmine. Nei superficiali e negli scavatori era limitato al cerchio ombelicale ed al culo che tenevano sempre fasciato e zuppo di merda. Le femmine si piumavano nei sei mesi all’aperto che durava l’allattamento, quando erano incinte, chiuse nelle piramidi, si ricoprivano di una cartilagine lattea che le rendeva simili a statue, anche tra loro c’era un equivalente dell’arlecchino con maschera umana, anzi ce n’erano due, una bianca per i chiari ed una scura per i neri.

Poi c’erano gli uccelli caduti, molti durante l’amplesso bruciavano male e si accoppiavano al contrario. I denti delle femmine non perdonavano, il fuoco serviva a proteggerli dalla loro innata voracità. Gli uccelli castrati rimanevano nelle piramidi e diventavano conciatori o guardiani delle varie attività del nucleo di riproduzione. Il loro abito cambiava, si fasciavano con pelli mescolate a tritume d’ossa e mantenevano una forma di intelligenza adattata alla nuova situazione, la loro maschera prendeva la forma di un teschio a cui spuntavano le corna. C’erano anche femmine che venivano infibulate durante l’amplesso,  l’amputazione non si limitava al clitoride, portava via tutta la vulva fino all’osso. Si univano ai maschi castrati e ne prendevano la stessa fisionomia.”  

 

“Perdonatemi, adesso penserà che…”

“Esopo, questo perdonatemi è necessario? Tu devi aver fatto qualcosa di orribile per ripeterlo continuamente, quale senso di colpa stai trascinando?”

“Lei dice?…perdonatemi, forse…può essere, non dico di no, anche il rabbino mi riprendeva ed io…perdonatemi, che cosa ne so? Mi viene così.”

“Anche a quei tempi, con l’uccello tigre, lo dicevi?”

“A quei tempi non parlavo, ero com’ero parte di lui e svolgevo al meglio le mie funzioni.”

“Quando iniziasti a parlare?”

“Come tutti, da bambino, ascoltando gli altri, ripetendo le loro parole.”

La risposta di Esopo ci fece riflettere, l’intuizione si era aperta esplodendo in un caos di significati proiettati con furore ad ogni stella dell’universo, un universale di parole divise nel bene e nel male che si riflettevano e venivano riflesse dalla forma tramandandosi dal tempo al presente nel linguaggio corrente.

La ricerca era penetrata nel nostro corpo e stava frugando nelle viscere, l’uccello tigre si nutriva solo di sangue, gli enzimi della digestione dovevano avere caratteristiche e comportamenti specifici che mutarono col mutare dell’alimentazione. La specie preumana si è tramandata ad oggi con tali modifiche, che fine fecero gli enzimi che digerivano il sangue?

Un rumore ci fece voltare. Il cammino percorso era avvolto in un buio assoluto, un pozzo di oscurità nel cui interno avemmo l’impressione di una vita brulicante che si trascinava incatenata al filo della narrazione.

Tornammo a guardare avanti, la ragione spaziava in un universo mai esplorato prima che si allungava nel tunnel passo dopo passo illuminato dalle fosforescenze di morti apparenti dimenticati da millenni. Il sognatore, il sogno, l’abito, la merda, il sarcofago che racchiudeva il cibo mummificato, guardavamo l’idea prendere forma mentre Esopo disse:

“Lo vedo, lei ha capito ma non vuole capire, il rabbino quando parlava degli artisti diceva che solo gli idioti sognano di essere, l’uccello tigre non sognava, agiva, tutta la tribù era un unico corpo agente ed ognuno aveva il suo comportamento naturale. Ora, tutte queste parole m’han fatto perdere il filo, dove eravamo rimasti?”

“L’uccello stava salendo al suo nido.”

 

“Sì, perdonatemi…era un luogo molto accogliente, sui castagni prendeva la forma di un riccio ed era vivo. Veniva  accudito dalle passere e dalle civette che vivevano sull‘albero, femmine dai denti smussati molto graziose ricoperte di muschio turchino sempre fiorito, saltavano con disinvoltura da un ramo all’altro e passavano tutto il tempo libero a cantare. In certe l’abito formava orecchie da coniglietta, in altre da gatta, in altre…ce n’era un’infinità, avevano tutte un cappello conico terminante con fiocchi colorati e usavano una costola  d’osso cava per suonare oppure per pulire l’uccello, sembravano le fate delle favole. Erano al suo servizio, lo nutrivano e ne venivano nutrite.

Il nido era la casa dell’uccello ed ogni tipologia ne possedeva uno particolare. Era una cosa straordinaria, perdonatemi, adesso penserà che…”

“Non ti preoccupare di quel che pensiamo, continua a raccontare.”

“Come vuole, è passato tanto tempo, adesso sembra ma allora…l’abito era un vegetale e come tutti i vegetali produceva fiori e frutti. Il nido era il frutto dell’abito, si sviluppava sul petto all’altezza del cuore e di un cuore aveva la forma. Quando il frutto era maturo veniva colto e piantato, come una tenda. Poteva essere sistemato su un albero ed in tal caso produceva lunghi filamenti molto robusti che si attorcigliavano fissandosi ai rami e prolungandosi con liane e scale di corda oppure sul terreno o in qualsiasi luogo l’uccello volesse accamparsi.

Una volta piantato cresceva velocemente, come un fungo, l’albero gli forniva il sostegno e parte del nutrimento ma era una pianta carnivora ed il suo cibo preferito glielo forniva l’uccello.”

Le parole di Esopo toccavano tasti che nell’intuizione suonavano accordandosi in significati troppo larghi per essere compresi dalla ragione, il corpo umano veniva relegato al semplice ruolo di cibo e l’abito diventava il vero protagonista della storia. Stentavamo a collegare la metafora alla realtà, l’abito si specchiava nel linguaggio e produceva frutti abitabili, ci limitammo all’appunto, il sogno cresceva e nel suo interno ci muovevamo. Continuavamo a spiluccare le zecche, una tirava l’altra, in bocca si scioglievano ed il sangue aveva un gusto che ricordava i buoni vini d’annata, eravamo inebriati positivamente e aperti a spaziare nei lati oscuri della ragione per portarvi finalmente la luce, procedevamo con cautela, su quel cammino di braci sepolte era facile prendere fuoco.

Una piccola parte della spalla di Esopo da cui avevamo staccato le zecche più saporite era scoperta, lo spiraglio emanava una pallida luce iridata, per il momento nulla di più.
 

“Il nido era campanulato, aveva sensori in grado di captare l’avvicinarsi dell’uccello e quando lo sentiva srotolava una lunga lingua su cui lui saliva per essere trasportato alla porta.

Questa era formata da corde tese su una ossatura a forma di U,  una specie di arpa eolica, quando si apriva rintoccavano vibrando e l’aria che fuoriusciva dal nido soffiava tra loro emettendo un suono, come dire… perdonatemi, sembrava una lunga scoreggia che echeggiava su tutto il villaggio e da tutto il villaggio gli altri nidi rispondevano scoreggiando o ruttando a loro volta. 

L’interno aveva un pavimento leggermente a conca su cui si riarrotolava la lingua formando un morbido tappeto, le pareti esagonali ed il soffitto a cupola con una piccola apertura sulla cima da cui pendeva un filamento che di notte diventava fosforescente illuminando l’ambiente.

Sulla soglia c’erano sempre due fate ad accoglierlo, ogni volta diverse, quella volta una maialina ed una cagnetta, avevano il muschio fiorito di tutti i colori ed i fiocchi sventolavano sui loro cappelli mentre con le bacchette accarezzavano le corde della porta facendole risonare di note golose…

Dentro avvenivano cose che…dirle così come butta, perdonatemi…le fate avevano il compito di prepararlo per l’accoppiamento con la dominante che sarebbe avvenuto l’indomani nella piramide, iniziava che gli sfilavano il budello leccando avidamente la merda che ricopriva quello ed il piumaggio, si spalmavano tutto il corpo, la lingua del nido li cullava assorbendo la merda sparsa, andavano avanti così fin quando rimanevano completamenti puliti poi iniziavano ad amoreggiare, un’orgia culinaria, una fata vomitava parte della merda ingerita nella bocca dell’altra che la ingoiava per rivomitarla mescolata alla sua nella bocca dell’uccello, oppure una cagava nella bocca dell’altra che ingoiava, lo stomaco faceva da pentola e cuoceva il cibo che veniva rivomitato nella bocca dell’uccello, erano veri manicaretti a quei tempi…le fate avevano i seni ed altre parti del corpo modificati in sacche gonfie di sangue, l’uccello le spillava, beveva il sangue, lo vomitava nella bocca di una che lo rivomitava nell’altra e nuovamente all’uccello, stavano a lungo bocca nella bocca a cucinarsi.”

“Un momento! Hai detto che l’uccello aveva una maschera ossea che gli ricopriva il viso, come poteva usare la bocca?”

“La maschera facciale ruotava automaticamente spostandosi nella parte posteriore della testa.”

Soppesammo le parole regolando l’apertura mentale necessaria per digerirle, gli elementi del sogno non conoscevano pietà ed il gioco era all’ultimo sangue, in quel momento ci accorgemmo che le zecche sulla spalla si erano spostate allargando lo spiraglio e scoprendo un tratto di pelle piumata dai colori variopinti, subito dopo Esopo scomparve e venimmo proiettati nel nido.

 

Di noi era rimasto lo sguardo e guardavamo da un corpo rivestito di una tuta piumata segnata da strisce colorate, sapevamo che ogni colore rappresentava un’Arte, erano presenti tutte le Scienze e le Attività umane, sulla schiena ci crescevano parvenze di ali e sulla testa un ciuffo di penne fosforescenti simile ad una fontana d’acqua luminosa zampillava d’intermittenze. Sul petto, all’interno di un marsupio nascosto tra le piume, palpitava un cuore, un’idea in attesa di realizzazione.

Di fronte a noi giaceva Ixo, il viso di un maiale, la pelle ricoperta di fiori profumati di merda fresca, le gambe aperte, la vagina una crosta di sangue venata di pus dorato dove sguazzavano sciami di vermi affamati.

Le pareti del nido erano rivestite da una mucosa verde acqua sparsa da finissimi brillantini che riflettevano la luce che proveniva da una lampadina posta sopra un tavolo dove stavamo scrivendo ad un computer,  il nido era morbido, sembrava l’interno di una bocca, un’apertura era sbarrata da corde colorate che si potevano tendere per scoccare note musicali simili a frecce che suonavano come parole e all’opposto c’era un buco di culo per espellere, non sapevamo ancora cosa.

La nostra bocca era armata di denti possenti, ci buttammo sul corpo di Ixo,  con un morso staccammo la crosta ingoiandola con i vermi poi iniziammo a leccare il sangue che fuoriusciva copioso dalla ferita aperta mentre Ixo grugniva ad alta voce, avemmo la sensazione di un orgasmo puramente animale e subito dopo venimmo scossi e qualcuno avvolto nel buio ci sputò fuori dal culo dove precipitammo in un bosco, mummificati da cercatori, a raccogliere funghi e castagne mentre tam tam nascosti tra gli alberi rullavano notizie deliranti.

Eravamo coscienti di sognare, imprigionati nel sogno e tesi con tutta la volontà al risveglio.

“Perdonatemi…” disse Esopo quando riaprimmo gli occhi, “su, alzatevi, avevo paura che foste morto.”

Eravamo nuovamente nel tunnel, ancora nel sogno ed avevamo sognato, uno sdoppiamento onirico che prendemmo come segno da aggiungere alle probabilità. Il libro lasciato a Giza ci seguiva, forse un avvertimento a non uscire dal tracciato della traduzione, in quel momento evitammo di fare collegamenti e ci rialzammo dalla polvere dove eravamo caduti.

Notammo che lo spiraglio si era chiuso prima di rispondere:

“Siamo vecchi, un mancamento dovuto all’età e forse alle tue zecche.”

“Vuole essere perdonato?” domandò Esopo in tono velatamente ironico.

“No, ora stiamo meglio, possiamo camminare, riprendiamo il percorso.”

“E’ sicuro?…guardi, non si vergogni di me, io sono, perdonatemi, come dire nulla, se vuole possiamo riposarci, il cammino è ancora lungo è abbiamo tutto il tempo che vogliamo.”

Il buio alle nostre spalle si era infittito, incombeva minaccioso spingendoci a proseguire. “Stiamo bene, eravamo nel nido, l’uccello e le fate, continua a raccontare.”

“Come vuole, perdonatemi…io, forse è vero, la colpa è mia, non so, adesso…quella notte le cose sembravano svolgersi naturalmente come tutte le notti, dopo cena le fate avrebbero cosparso il piumaggio dell’uccello con la loro urina per impedirgli di prendere fuoco durante il sonno ed al mattino al risveglio lui avrebbe dato il via al concerto con cui la giungla salutava il sorgere del sole, le corde del nido potevano essere suonate, emettevano note squillanti alternate da rutti e scoregge a cui rispondevano i nidi del villaggio, ognuno con il suo tono particolare, il concerto si andava ad unire a quello di tutti i villaggi, compresi i nidi sparsi all’esterno e  quelli nascosti nelle macchie, tutte le giungle per un estensione di miliaia di chilometri ruttavano e scoreggiavano all’unisono.”

“Doveva essere uno spettacolo maestoso.”

“Sì, perdonatemi…avevamo anche i fuochi artificiali che rischiaravano la notte fondendosi con le stelle al tramonto per aprire la strada alle prime luci dell’alba, il nostro mondo era…perdonatemi, c’è da perdersi…ma quelli non erano tempi che si potesse dire da un momento all’altro che cosa sarebbe successo e l’uccello decise diversamente.

Gli avvenimenti della caccia del giorno prima erano stati trasmessi dai tam tam e ridondati dai corni di caccia nelle savane a tutte le giungle che ci circondavano mettendole in agitazione. Ovunque si accendevano inseguimenti che rimbalzavano da un confine all’altro diventando sempre più grossi. Gli individui erano spinti fuori dalla pressione demografica che in quel periodo di ristrettezza era diventata insostenibile, era un mondo in attesa della scintilla per poter scoppiare ed il mio uccello l’aveva sprigionata, perdonatemi…tutte le giungle sulle fasce di confine sembravano formicai impazziti e l’agitazione si trasmetteva all’interno.

Inoltre c’era la banda dell’arlecchino, la più numerosa e feroce, alla sua caccia.

Il compito fondamentale dell’arlecchino era il controllo demografico dell’intera scacchiera in modo che nessuna tribù diventasse troppo grande per distruggerne altre o troppo piccola per venirne distrutta. Per fare questo lui controllava i tigre che comandavano i vari settori, quando uno di loro aveva troppo successo con la caccia causando lo spopolamento delle popolazioni cacciate o faceva parlare troppo di sé mandava la sua banda ad eliminarlo. In questo modo si causava un arresto provvisorio delle attività del settore che permettevano agli altri di ripopolarsi e l’arlecchino eliminava un probabile concorrente alla sua carica.”

 

“La logica del potere!” esclamammo, “la vostra era un’organizzazione perfetta. C’è una cosa che non capiamo, hai detto che i confini erano super popolati, che motivi avevano di dargli la caccia?”

“Perdonatemi…è una storia lunga, lui li aveva già gabbati una volta ed erano inferociti. Il mio uccello aveva un’intelligenza straordinaria, sapeva prevenire le mosse ed usava i nemici per eliminare gli ostacoli che si opponevano al suo cammino. C’è un’altra cosa da dire, perdonatemi…forse avrei dovuto farlo  subito,  ricordare quei tempi è come…non so, mi risveglia cose che…era un’altra vita, io…”

“Abbiamo capito, continua a raccontare.”

“Ci provo, come posso, il mio uccello, lui…era il vero arlecchino, almeno avrebbe dovuto esserlo. La sua maschera umana era perfetta e quando si toglieva il budello il piumaggio sfavillava di tutti i colori.

Aveva compiuto il giro dei settori velocemente, arrivato al fondo avrebbe potuto sfidare il capo e prenderne il posto ma lui decise diversamente e tornò indietro. Quando un tigre sfida l’arlecchino nella tribù avviene una rivoluzione, le giovani generazioni si oppongono alle vecchie ed a eventi maturi le sostituiscono, in tutta la scacchiera.

La sua decisione aveva bloccato la rivoluzione ed era in parte causa del sovraffollamento che si era creato. L’uccello tornò indietro, perdonatemi…fu una scelta che…”

“Perdonatemi, perdonatemi, insomma! Fu l’uccello a farlo, sembra che te ne voglia scusare, cosa nascondi?”

“Lei dice? Forse…sono le zecche, ognuna la pensa a modo suo e certe volte…perdonatemi, non so…lasciò il settore ad un tigre ancora immaturo per la sfida con parte della banda e con il rimanente occupò il territorio di fronte ai neri dove agiva in incognito come cacciatore indipendente lasciando sempre il merito delle sue catture al tigre al comando che in breve, per tanta fortuna, diventò un idolo  della tribù. Questo faceva rullare continuamente i tam tam a suo favore e spinse l’arlecchino al centro a mandargli contro la sua banda, lo eliminarono e come se ne andarono l’uccello saltò fuori e si prese il settore con tutto quel che c’era.”

“Un vero furbacchione, ma tu come fai a sapere queste cose se eri con l’altro?”

“Io…perdonatemi, forse ero, adesso…lo vede anche lei dove sono, cose che si dicono dopo, allora…se vuole racconto altrimenti sto zitto.”

“Abbiamo capito, hai un segreto da nascondere, continua la storia.”

“Storia…a guardare dalla finestra il passato sembra oggi, in questo tunnel buio le ombre rivivono nella memoria come allora…gli uccelli quando uscivano erano sempre imbudellati per non prendere fuoco e nessuno si accorse del doppio arlecchino ma i tam tam continuarono ad esaltare i suoi successi e la banda del capo era tornata.

C’erano problemi anche nei sotterranei, la mancata rivoluzione aveva moltiplicato il numero dei cercatori e scavatori che dipendevano dalle concerie sotto le piramidi per rivestirsi e proteggersi dalla giungla. I depositi si erano esauriti e le pelli che venivano estratte giornalmente non bastavano più a soddisfare la domanda in continua crescita. Questo causava agitazioni nei percorsi sotterranei ed in superficie, si creavano assembramenti che chiudevano i passaggi a danno dei rifornimenti che giungevano al centro, al cuore del sistema. Scavatori e cercatori presi singolarmente non costituivano problemi ma rappresentavano la classe sociale più popolosa della tribù e se si scatenavano tutti insieme non c’era nulla che potesse opporsi. Perdonatemi…sembrava che ogni cosa fosse disposta per quel che doveva succedere ed il mio uccello, da solo, tirava le fila…”

“Il tuo uccello o l’abito che indossava? Hai detto che era quello a determinare il comportamento della tribù.”

“Lui era l’abito, sotto aveva denti da vampiro, perdonatemi…che differenza fa?”

“Una specie complessa, il cibo, la pelle, l’abito e sopra il budello. questo budello è importante?”

“Perdonatemi, gliel’ho detto, impediva al piumaggio di prendere fuoco.”

“Un soprabito inibitore del desiderio.”

“Cos’è, non parli difficile con me, non capisco, perdonatemi…”

“Per il momento solo un’idea, ogni tipologia ne possedeva uno particolare?”

“Sì, naturalmente, senza budello il piumaggio non si sviluppava, per gli uccelli più feroci era ricavato dal pene dei dinosauri ed andava conquistato sul campo,  rappresentava la potenza sessuale e tra le altre cose serviva a contenere la merda necessaria all’alimentazione del sistema ombelicale e del nido. A quei tempi i dinosauri erano diventati rari ed erano pochi gli uccelli che se lo potevano permettere, gli altri si imbudellavano con gli intestini delle prede che catturavano. Il budello del tigre si poteva allungare fino ai piedi ed era dotato di un cappuccio tratto dal glande del tirannosauro che all’occasione si poteva scappellare dal budello.”

“Una figura interessante, sembra una placenta oppure un preservativo nel cui interno si sviluppa l’idea.”

“Perdonatemi…se lo dice lei…di che idea sta parlando?”

Aveva tutta l’aria di una trappola mortale. Lasciammo la domanda senza risposta limitandoci ad aggiungere l’informazione alle probabilità da calcolare.